Il rosso fiore della violenza XII puntata

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di Matteo Ricucci

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Il poliziotto

Era il giorno della festa patronale di M., ridente paesino del Gargano. Il sonno dei bambini, pieno d’attese gioiose, fu interrotto dallo scoppio dei mortaretti e dallo scampanio delle campane dell’unica chiesa, adornata di luminarie colorate. Il clima era splendido per quel settembre di luce del 1972. Gli ambulanti avevano già esposto la loro mercanzia multicolore e i loro caratteristici richiami, lunghe urla modulate su d’un tono monocorde, ancestrali riverberi d’antiche dominazioni, come i richiami dei muezzin delle città arabe. Le bianche mura delle case a schiera accecavano gli occhi e destavano sopiti desideri. I paesani vestiti a festa riempivano l’unica strada, stretta e lunga, del centro che eufemisticamente chiamavano il “corso”. La congestione del traffico sembrava un’arteria cerebrale troppo piena di sangue, di un vecchio pletorico e iperteso. A un tratto squillarono le note argentine degli ottoni della banda municipale che, con le divise di gala luccicanti di ori e di lustrini, chiedeva il passo. La folla si schiacciava contro le bancarelle allineate sui due lati della strada, rischiando di rovesciarle e di subire quindi le invettive inviperite degli ambulanti. Mani leste e furtive di bambini golosi affondavano, non visti, in quelle ceste ricolme di dolciumi e di frutta, immuni comunque dalle rappresaglie dei proprietari impotenti. Tra la moltitudine spiccava la figura di un giovane alto e atletico, che indossava una nuova e attillata divisa di sottufficiale della Pubblica Sicurezza, il quale, anziché temere per la propria eleganza, sembrava godere intensamente per quel festoso disordine. Il suo viso era sereno e sorridente e ogni tanto, con la mano alta, accennava a salutare parenti, amici e conoscenti. Era Antonio Lauriola, figlio del fabbro del paese, diplomato in ragioneria il quale, per sfuggire all’inerzia soporosa di quell’ambiente paesano che nulla aveva da offrire, s’era arruolato nella polizia. Era in licenza premio perché, con coraggio e disprezzo della vita, aveva catturato due pericolosi rapinatori di banche. Egli si sentiva fortunato d’essere ritornato nel suo paese, proprio in occasione della festa Patronale, avvenimento che riusciva, almeno per i tre giorni della sua durata, ad accomunare nella stessa euforia, tanto i ricchi quanto i poveri, sfruttatori e sfruttati, vecchi, giovani e bambini. Settembre era il mese che più gli piaceva, quando il caldo estivo si attenua e la luce solare, una luce tutta particolare per via di un suo più armonico rapporto con l’ombra e che dona a ogni cosa una veste più vera. Le urla, le note squillanti della banda, la calca, lo entusiasmavano. A un tratto spiò tra la folla una sagoma inconfondibile. “ Mario, Mario!” urlò con tutto il fiato che aveva in gola. p-5-processione-sFacendo gesti con le mani, cercando di farsi notare dal suo più caro amico d’infanzia: Mario La Torre, maestro elementare disoccupato, figlio unico di Matteo “u Cafone”,un vecchio bracciante socialista da sempre. Il giovane intravide l’amico in mezzo alla calca e, sbracciandosi a sua volta, gli corse incontro, fendendo la folla a forza di bracciate e di spintoni. “Antonio, filibustiere, quando sei ritornato nel tuo vecchio covo?” – “Ieri sera tardi; alla stazione di Foggia ho incontrato Gianni il Balbo che mi ha dato un passaggio sulla sua vecchia e scassata Balilla ed eccomi qui!” – “Sei in piena forma! Accidenti che figurone ci fai con questa divisa e con questi gradi” – “Non credere che ce li regalano! Sapessi quanto ho dovuto sgobbare per meritarmeli, altro che esami di stato! Devo convenire però che alla fine ne è valsa la pena. I superiori mi stimano e poi adesso finalmente percepisco pure uno stipendio, anche se magro, ma meglio di niente, no? E poi finalmente mi sento utile anch’io”. Antonio vide svanire dal volto dell’amico la gioia del loro incontro ed apparire invece la tristezza di sempre. “Scusami, Mario, sono uno sciocco a parlarti dei miei successi, conoscendo bene la tua situazione”. La moltitudine vociante premeva da ogni lato. L’eccitazione cresceva a dismisura perché, dal fondo del corso, stava avvicinandosi la processione. Preceduta dalle congreghe, dalle autorità cittadine e dal clero,ballonzolando, avanzava la statua del Santo Patrono, San Giuseppe da Copertino, un vecchietto dalla barba ispida e dal sorriso triste, sorretto a spalle da robusti paesani. Sotto i raggi del sole scintillavano i paramenti sacri, ricchi di sete e di fili d’oro e di ex voto preziosi, tutti doni della povera gente che tanto aveva da impetrare per combattere miserie e malattie. Attorno al collo del Santo pendeva una sciarpa di seta sulla quale si appuntavano, di volta in volta, le offerte in denaro. Quando essa fu all’altezza di Antonio, questi estrasse dal portafogli due biglietti da diecimila e spiegazzandoli li appuntò sulla sciarpa, dicendo ad alta voce: “Una parte è per ringraziarti dell’aiuto che mi dai, l’altra è per il mio amico Mario, ricordatelo e cerca d’aiutare anche lui, se puoi!”

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