Il nome della rosa e i tenutari del sapere accademico

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di Medardo Arduino

 Medardo Arduino

“Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” è la citazione che conclude il bel romanzone di Umberto Eco “Il nome della rosa”, a questa frase penso spesso quando rivedo e cerco di aggregare i molti indizi e le scarse prove che fu proprio negli scriptoria basiliani e benedettini della nostra terra (come espongo in Francos, la storia da riscrivere – III ed. 2015) il luogo dove vennero trascritti i classici della letteratura romana dai rotoli alle pergamene, vergate in bella grafia carolina. I toni e le vicende del “noir” che ha dato a Eco fama e sostanze nascono dalla scelta “politica” del venerabile abate del monastero, presidio del sapere arroccato sui monti, di distruggere tutta la biblioteca purché non sia di pubblica conoscenza un testo che allontanerebbe gli uomini semplici dal loro sentiero di obbedienza. Il monastero dove è ambientata la storia di Eco è in un tempo più o meno cinque, sei secoli dopo l’inizio della storia altomedievale della Francia Salica Picena, ovvero di quella realtà storica che cerco di studiare e di spiegare proponendo le mie ipotesi come argomento di analisi e non di indiscutibili assiomi, come è invece presentata la “storiografia ufficiale”. La storia dei “miei” monasteri di mezza valle nei quali si “recuperò” come dicono gli storici, si “mantenne vivo e si conservò” come sostengo io, il sapere originale del territorio che produsse la nascita di “Roma” e della sua civiltà, interessa le regioni a cavaliere dei Sibillini e della parte prevalentemente cispadana dell’Italia settentrionale (ho raccolto reperti interessantissimi). Entrambe le situazioni: quella romanzata di Eco e quella “ipotizzata” nei miei saggi, vivono lo stesso esito: la distruzione di tutte le prove di ciò che “per la ragion di stato” la memoria popolare sa, ma non deve né dire né sapere. Mi spiego meglio, come da tempo ripeto, la “nostra” prima Francia Salica Picena, terra degli imperatori Carolingi e dei loro maggiorenti, quando i tre nipoti del Carlone defunto, lasciano la Francia per disputarsi l’impero transalpino, il Papa Re, già probabilmente signore feudale del fermano, occupa l’intero territorio marchigiano e parte di quello romagnolo e ne fa il suo regno temporale. In conflitto con la legge Salica che conserva il diritto di prelazione dei veri proprietari, farà dapprima carte false (letteralmente) poi come il venerabile abate del nome della rosa, distruggerà colle fiamme tutte le prove scritte (analisi degli incendi degli archivi curiali fatta da don G. Carnevale) e caccerà i Benedettini Ghibellini (analisi di F. Allevi – Quaderni storici maceratesi n° 2). Poi, per depistare la tenace memoria orale, dalla cattedra degli atenei e dalle penne degli autori che scrivono “con licenza dè superiori” sposterà pian piano, generazione dopo generazione, la forte memoria della presenza Franca, attribuendo toponimi e aneddoti alle “occasionali” presenze degli imperatori scesi per “rimettere il papa in sedia” (A.Bacci), anche i nomi dei maggiorenti di Pipino il breve e di suo figlio Carlone, diventano personaggi del tempo di Pipino re d’Italia e/o al seguito di Carlo il calvo, nell’unico viaggio che questi fece da Parigi verso Roma. Dando un’occhiata alle varie storie ufficiali il Carlone, come Garibaldi, anche lui nell’unico viaggio che fece per l’Urbe, toccò almeno un centinaio di località a zig zag per l’intera Italia settentrionale e centrale, Abruzzo compreso. Se la memoria popolare si può confondere spiegando dal pulpito che “non era qui, ma ci è venuto qualche volta…”, e se ti ricordi che il tuo quadrisavolo era di Tolentino ed era lo scarparo dell’Imperatore, questo diventerà allora una semplice vanteria perché magari gli avrà fatto un paio di Clark quando è passato per caso a Casette… e anche il diligente figlio del contadì, che ascoltò i racconti del nonno, quando per studiare e migliorare il suo status deve adire il seminario, non avrà più dubbi. Egli stesso, salito di grado e di cultura dopo moltissime generazioni di “villani” scriverà un libro con titolo, avallo e dedica come quello che vi riporto di seguito in sintesi:

 

 p 14 il nome della rosa 1

 

p 14 il nome della rosa 2

 

Questa sopra è la parte saliente del titolo (anno 1815)

 

p 14 il nome della rosa 3

 

p 14 il nome della rosa 4

 

Questa è l’ossequiosa, anzi servile, dedica e altrettanto servile dichiarazione che non ritengo abbisogni di commenti, salvo lo scioglimento delle abbreviazioni che suonano: Umilissimo Devotissimo Obbligatissimo Servo.

 

p 14 il nome della rosa 5

 

 

Qui sopra un altro esempio, scritto in maiuscole e in grassetto del placet che autorizzava la pubblicazione. Rimangono due aspetti non semplici da risolvere: i testi e le storie scritti un po’ dappertutto e un migliaio di edifici, ma il primo fortunosamente si risolve con il provvidenzale equivoco della Francia transalpina, quella attuale, che occupata dai Salici di Carlo III e Ugo Capeto, prende consistenza come toponimo solo nel XIII secolo qual “regno di Francia” (se non ci fosse questo equivoco non sarei qui a scrivere cose che tutti già sanno), questa Francia è molto legata al Papa Re perciò basta un accorto spostamento di date e tutte le fonti quali racconti, frammenti aneddotici ecc. che sono scampate agli incendi perché non sono più prova determinante come un atto notarile o un diploma, vengono accreditate alla Francia attuale che si ritrova depositaria di una cultura ricchissima che è nata e si è lentamente sviluppata nella Francia Salica Picena e nella adiacente Neustria/Tuscia fino ad interessare i domini franchi dei marchesi del Monferrato e di Provenza. Nessuno si stupisce infatti che Paolo e Francesca a Gradara leggano Lancillotto e Ginevra scritto in langue d’oil (erano tutti poliglotti o leggono nel loro dialetto “francese” che da qui è andato all’Ile de France dove il poema è stato trascritto?). Se qualcuno me lo potesse spiegare, ringrazierei, ma lo faccia senza argomentare che copisti toscani sfaccendati e ultrapoliglotti trascrissero anche i testi “francesi” oltre a quelli “siciliani” (cfr. “rosa fresca aulentissima” in – Francos, la storia…- op.cit). Così i poeti, i musicisti, i misteriosi templari “francesi” studiati dal compianto Giovanni Cardarelli fanno uno “shift” di qualche decennio e di mille km e il gioco è quasi fatto. L’illuminismo e il suo contraltare il romanticismo affrontano il problema della cultura materiale; l’interesse per l’archeologia e la storia “delle cose” si diffondono e allora i tenutari del sapere accademico ottocentesco reagiscono: insegneranno ai loro discepoli e aspiranti al loro seggio che gli edifici (contrariamente ai loro componenti strutturali specie se tardo antichi) si datano dal primo documento che ne fa menzione, anziché da caratteristiche tecniche e formali… come da esempio allegato:

 

p 15 il nome della rosa 6

 

mancando quasi completamente documenti prima del X secolo il gioco è fatto e la storia continua… Restano sul territorio le Vergare, che, perché donne, non sono mai andate in giro neppure per il servizio militare. La loro memoria è tenace, ma in genere le loro nipoti laureate hanno oblato curiosità intellettuale, coscienza e orgoglio delle proprie origini ai social network e tutto finirà nella omologazione cosmica e in un grande party in una bella location, con un banqueting fantastico a base di fava, ciauscolo e blu englisc ceese. Amen.

 

 

 

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