Ab urbe condita, parte terza

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Riprendo per la terza volta le mie tesi sulla fondazione di Roma, questa volta per la componente onomastica. Prima uno sguardo sulla scena poi sui personaggi. Nell’VIII secolo a.C. o suppergiù, l’areale peninsulare Italico può considerarsi suddiviso in due grandi bacini etnico-culturali, legati fra loro dalla stessa economia di mercato: il centro nord e il sud magnogreco. Il livello di cultura delle civiltà italiche lo leggo non sui testi di storia, ma sui reperti archeologici dei moltissimi musei italiani, soprattutto di quelli minori delle regioni centrali. Le aree a maggior economia, procedendo da sud sono quelle magnogreche della Campania, quelle Etrusche tirreniche e quelle Popuni centro adriatiche (molti secoli più tardi i romani le battezzeranno Picene). La Magna Grecia eccelle per l’arte ceramica, gli Etruschi per i bronzi e i Popuni per gli acciai ricavati dal ferro etrusco. Veniamo al dunque, in questo scenario, l’Urbe è stata fondata cioè è stata realizzata partendo da una volontà politico economica e da un progetto (nel senso più generale della parola). Ricusare questa affermazione significa buttare alle ortiche storia e memoria popolare che trasformò in leggenda Romolo e Remo e successori. La città non è nata su una grande direttrice di traffico mercantile o al centro di un bacino produttivo, bensì nel primo entroterra delle paludi costiere del Tevere, quindi per Roma non reggerebbero le origini di lentissima aggregazione spontanea per scopi produttivi e commerciali che caratterizzano le prime compagini urbane, ma Roma è stata fondata proprio lì apparentemente senza una ragione. Sappiamo che una città non è luogo di pastori e neppure di agricoltori e l’unica attività possibile in quelle aree era appunto la pastorizia (Tito Tazio docet). Le città nascono e si cingono di mura per consentire e proteggere attività manifatturiere e commerciali, e perché queste si sviluppino devono anche dotarsi di un potere decisionale per la collettività cioè di un governo, di una magistratura giudicante, di un potere militare e di tutte quelle attività di servizio indotte sia immateriali che materiali. Per fondare una città ci vogliono risorse economiche notevoli che certo non potevano avere né i pastori safini né la gang di emarginati che si vorrebbe abbia fondato l’urbe. Ma perché fondare Roma proprio sul confine fra Etruria e Magna Grecia? Perché era secondo me l’unico posto dove una città non c’era ancora e la si poteva fare perché quella era pressappoco terra di nessuno, ma ben raggiungibile scendendo le valli del Nera e del Tevere. Bisogna considerare che proprio in quel periodo diventano economicamente accessibili (per nuove e migliori  conoscenze  tecnologiche  per produrre le attrezzature) i giacimenti metalliferi della Sardegna (dato che ricavo dall’incremento degli oggetti d’importazione magnogreca ed etrusca negli scavi archeologici dell’isola), minerali che prima provenivano in pratica solo dal nord Europa. Un’economia prevalentemente basata sulla metallurgia come quella Popuni si è venuta a trovare svantaggiata perché troppo distante dai nuovi luoghi di approvvigionamento rispetto ai competitors tirrenici. I capitali e tutto il know-how degli industriali e armatori Popuni hanno consentito la nascita di una città in origine squisitamente mercantile come Roma e a farla decollare in un lampo nella scala dei tempi storici. Memoria popolare e leggenda hanno conservato i nomi dei “sette re” dei quali mi soffermo sul secondo. La storia tramandata dice che fu in pratica il vero primo: un legislatore (era ovviamente necessario definire le regole della nuova nascente società, giusto come fecero le 300 famiglie del Mayflower all’arrivo nelle nuove terre) e Numa Pompilio lo ha fatto, e ha anche portato con sé i formidabili guerrieri Salii (un nome ricorrente nella mia storia delle Marche mi pare…) che erano l’unica autorità a decidere quando e come fare la guerra. Che Numa derivi da Numitore è la pura opinione di un qualche saccente umanista, non c’è nulla che lo possa provare, mentre Pompilio è chiaramente un nome Popuni, che secoli dopo volgerà in Pompeo, come quel Gneo Pompeo fermano che tutti conosciamo, ma è diretta derivazione di Pompuleio il nome Popuni indelebilmente e inequivocabilmente inciso nella pietra della statua del “guerriero di Capestrano” che anziché un guerriero senza scudo era in realtà un gran sacerdote e “re” (la scritta in alfabeto medio-adriatico, per me piceno italico, dice: Aninis ha fatto questa bella statua del re Nevio Pompuleio, -ripreso dalla decifrazione del prof Adriano La Regina- Pompuleio (Pompilio-Pompeo) è quindi un nome vero e nostrano, è preceduto da un prenome, Nevio, che può indicarne la provenienza, esattamente come Numà, che guarda caso è il nome dialettale di Numana. Mi permetto di far osservare ai soliti detrattori a titolo gratuito (senza cioè argomentazioni da contrapporre) che la mia ipotesi, sebbene al pari delle altre non abbia alcuna prova schiacciante, poggi comunque su un lacerto di cultura materiale concreto e non “della storia leggendaria”. Non è inoltre contestabile perché riferita a uno “straniero” se i due Tarquinio sono universalmente accetti come re Etruschi. Anche Re Marzio (i Popuni adoravano Marte-Pico quindi è un nome plausibilmente piceno) da Ancò… na (ndr: Ankòn), ossia Anco Marzio usando la stessa logica, è comunque una ipotesi per nulla risibile Amen.

Medardo Arduino

26 aprile 2017

 

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