Notizie vere, curiose e divertenti: “I fornaciai di Colbuccaro”

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In forza di un antico blasone popolare, gli abitanti della frazione di Colbuccaro, in territorio di Montolmo, venivano detti li Casettà de Carbùccoro, per via dell’agglomerato costituito da povere casupole, che erano pochine, tanto da far dire del borgo, per dileggio, ai malevoli vicini: tre case, tre fónde e un furnu (tre case, tre fonti e un forno), il forno era naturalmente quello a legna per cuocere il pane.

 

Li fornacià de Carbùccoro

Questo forno richiama alla mente le fornaci di laterizi che da tempo immemorabile esistevano a Colbuccaro, data la grande disponibilità di argille della zona. E poiché queste garantivano la sussistenza a molte famiglie, ecco un altro epiteto: li fornacià de Carbùccoro, che era denigrativo per modo di dire.

 

Umanità varia

Le vere offese, invece, facevano leva sul degrado sociale del borgo e quindi i suoi abitanti potevano anche essere malignamente definiti ugnusi (ladri), zìnghiri (accattoni) o fazù (spacciatori di moneta falsa): candidati o avanzi di galera. Ora, che il bisogno spingesse alcuni a delinquere non si potrà negare perché vi sono le cronache e gli atti giudiziari del passato a testimoniarlo. Ma non vi è dubbio che a Colbuccaro vivevano in maggioranza, pur nella indigenza, persone oneste fior di lavoratori.

 

Pacì de Legafàsciu

Uno di questi lavoratori esemplari, almeno uno, bisogna ricordarlo e citerò Pacì de Legafàsciu (al secolo Pacifico Bartolucci) sia perché era un fornacià e sia perché ottenne pubblici riconoscimenti. Questo Pacì, dal 1923 al 1945, tutti i santi giorni da Colbuccaro partiva a piedi per recarsi al lavoro presso le fornaci Antonelli, a Borgo Santa Croce di Macerata.

 

10 all’andata 10 al ritorno

Percorreva pazientemente i 10 chilometri dell’andata e quelli del ritorno a piedi, col suo solito passo, qualunque fosse la stagione affrontando tutte le possibili intemperie. Soltanto casualmente e piuttosto raramente incontrava qualche carrettiere o birocciaio che lo faceva salire sul carro per un tratto di strada. La vita durissima che conduceva questo operaio, che dopo essersi spedecàtu andava a fare uno dei lavori più pesanti che c’erano, faceva chiedere a chi lo incontrava per la via: “Ma do’ la piji tanda forza, Pacì?” e lui rispondeva ammiccando: “In una stilletta de vì’” (In un goccetto di vino).

 

65 anni e ancora lavorava…

In effetti al nostro Pacì il vino piaceva, specie nei giorni festivi. Ma una condanna per questa sua propensione non veniva avanzata da alcuno e neanche verso altri lavoratori a cui bere piaceva anche di più. Questo perché qualche bicchiere di vino costituiva allora  il solo lenitivo alle fatiche fisiche e alle pene morali delle classi inferiori e dunque a Colbuccaro se di forno ce n’era uno, di candine (di osterie) ce n’erano due ed entrambe assiduamente frequentate: anche se il vino che vi si spacciava non fosse stato buono, lì ci si poteva aggregare e svagarsi nelle ore libere. Ebbene, tra una stilletta e un’altra il nostro Pacì andò a finire sul giornale per la eccezionalità  dell’esistenza che conduceva e c’è a Colbuccaro chi conserva quel giornale che riportava una specie d’intervista fatta al nostro personaggio nel 1945, quando a 65 anni lavorava ancora.

7 luglio 2018  

 

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