Quando a Macerata si faceva vera accoglienza

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Era il novembre del 1951 quando accadde un fatto drammatico che sconvolse l’Italia: l’alluvione del Polesine. Si restò tutti incollati al televisore per seguire col fiato sospeso l’avvicendarsi degli eventi dovuti alla irruenza delle acque alluvionali.

 

In tv immagini angoscianti

L’immagine delle case di campagna lungo il Po sommerse fino al tetto e dei vecchi contadini fradici d’acqua che, seduti sulle tegole delle proprie case, aspettavano la barca della salvezza sotto una pioggia torrenziale, rimase incancellabile nelle coscienze dei più. Erano immagini brutali che non si erano mai viste e che davano l’esatta situazione della tragedia che aveva colpito una popolazione inerme. Mai fino ad allora un dramma di così vasta portata si era potuto vivere grazie alla televisione, in maniera così ravvicinata.

 

Marco, il profugo orfano

In classe gli insegnanti ci parlarono di situazioni  familiari  sconvolte  e  fummo invitati ad occuparci fraternamente dei profughi rimasti senza casa e senza più nulla. I genitori furono convocati a scuola: la mia famiglia fu una delle prime ad accogliere un orfano profugo. Si chiamava Marco e divenne ben presto il bimbo più benvoluto del cortile (ndr: un cortile che si trova lungo la odierna via IV novembre a Macerata). Era un bel moretto timido e taciturno, ma con Ismaele fraternizzò subito. Tutti nel cortile si prodigavano nel donargli scarpe e indumenti ed egli li accettava con un sorriso che nascondeva, abbassando il mento nel bavero del giubbetto. A tavola parlava poco, anche se il babbo lo stimolava con qualche domanda; ma quando mia madre gli porgeva il piatto della minestra i suoi occhi s’illuminavano ed era palese la sua riconoscenza.

 

I doni alla partenza

“C’è da capire – diceva la mamma – nel suo cuore ha il dolore per la tragedia vissuta; ha visto i genitori strappati dalle acque e d’improvviso si è trovato in mezzo a persone che parlano con un altro accento, un altro dialetto…”. I due mesi in cui Marco restò con noi trascorsero velocemente e quando giunse il giorno della sua partenza per riunirsi coi suoi compaesani, tutti nel cortile scesero a salutarlo. Ricambiò l’abbraccio di tutti, per la prima volta sorridendo senza nascondere il mento; non sapeva più come sostenere i giocattoli che gli amici gli porgevano con l’augurio che ci si sarebbe ritrovati, prima o poi. Mio fratello gli regalò un trenino di latta, il suo giocattolo preferito.

 

Le lacrime agli occhi

Mia madre, nell’abbracciarlo aveva le lacrime agli occhi. Dopo aver sistemato la valigetta di fibra dei suoi indumenti sul portapacchi del pulmino, destinato a raccogliere i vari profughi disseminati nella zona, gli aggiustò sul capo il bel berretto di lana a quadretti che era stato del mio fratellino morto: “È un caro ricordo – gli disse con voce spezzata dalla commozione – ma te lo dono di cuore a condizione che tu non ci dimentichi”. Rispose Marco: “No, mai!” e i suoi occhi grandi e neri ci fissarono attoniti dal finestrino, fin quando il pulmino svoltò alla curva in fondo alla strada.

 

Quale fu il suo destino?

Quale destino ebbe il piccolo Marco non lo sapemmo mai; gli scrivemmo al Comune di origine lettere e cartoline che non ebbero mai risposta. Forse fu accolto in un istituto e i nostri scritti non furono mai recapitati e il povero piccolo non sapeva come farci pervenire sue notizie.

20 ottobre 2018

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