“Dicerie popolari marchigiane tra ottocento e novecento”

Print Friendly, PDF & Email

Stampato

l’ennesimo lavoro di Claudio Principi

 

Dicerie popolari marchigianeInfine saranno cinque i volumi scritti da Claudio Principi, uno per ogni suo figlio, come anticipato in una pagina: “Ai miei figli che son cinque: cinque petali di un fiore, cinque spicchi di un’arancia, cinque lettere di Padre”. Finora ne erano usciti tre e i lettori de La rucola ben lo sanno perché tutti i mesi da questi vengono tratti e pubblicati brani sempre simpatici e interessanti. Adesso è arrivato il quarto, edi-to a cura della Condotta Slow Food di Corridonia, per i tipi delle Edizioni Simple. La tematica, coerente, è la medesima per tutte le pubblicazioni, perfettamente illustrata dal titolo “Dicerie popolari marchigiane, tra ottocento e novecento”, che la inquadra nella sostanza e la distribuisce nel tempo. Sono volumi preziosi per la raccolta minuziosa fatta dall’autore  di tutto quanto ha stimolato la sua curiosità, che servono per non lasciare dispersa una campionatura di umanità varia, di vicende, di situazioni e di battute condite con il sale di una arguta filosofia popolare dell’immediatezza. Filo conduttore è il linguaggio, spesso tradotto da Claudio Principi, per una migliore comprensione, visto che l’idioma dialettale maceratese (e non solo, considerato che il libro spazia con i suoi racconti per tutto il centro delle Marche) non è dei più semplici da leggere, anche per chi lo parla. E’ raccontato il tempo in cui le vie erano popolate da artigiani, punteggiate da cantine, percorse dalle processioni. Un mondo, un modo di vivere scomparsi, letteralmente polverizzati da una società in rapido movimento che macina tutto e tutti e lascia dietro di sé solo rari reperti destinati, comunque, a finire. Ecco il grande valore di pubblicazioni che fissano sulle pagine di un libro (oggi meno sui libri e più nelle memorie dei computer) i ricordi. Non sono i ricordi di Claudio, o di chi come lui preserva tali tracce, ma i ricordi di una umanità che tende a dimenticare il suo percorso. Concludiamo con due versi che offrono una ironicissima visione del progresso:

 

Una òta, a ttembu andicu,

se pisciaa da lu muricu:

lu progrèssu ha cagnato ‘gnico’,

‘mmo se pìscia um barmittu più ghjò.

Come passavano le loro serate i maceratesi negli anni ‘50?

Ecco tre esempi per il ceto alto, medio e basso.

Tempo libero

Siamo negli anni ‘50 alla scuola elementare del capoluogo. Durante una breve ricreazione, pare sia avvenuto questo scambio d’informazioni tra tre ragazzi di quarta elementare appartenenti a ceti diversi. Notifica il figlio de lu signore, il ricco, insomma: “Dopo cena, a ccasa mia vié’ sèmbre um po’ de persone: le donne parla de vistiti, l’omini parla de pulitica e nojardri ragazzi jocamo a mmercante in fiera”. Interviene il figlio di un impiegato: “A casa mia, invece, fatta la cena sindimo la radio tutti insieme o juchimo a ddama. Mio patre leje li jornali, e mamma stira le camìsce”. Tocca al figlio del contadino dire la sua e con tutta franchezza  questi  ammette: “Nuà,  dopo cena, ce

mittimo venfattùccio a ssedé’ tunno la ‘ròla e ddicimo le làvede. Dopo mamma fa li cazitti, nonna ‘ttizza lu focu e cche òta recconda le sconda fàvole, e vabbu ppennecatu ‘gni tando scorrégghja e tutti ce guastimo de rride!”.

 

A quel tempo come era considerata la politica? In modo tanto difforme da oggi?

Rapporti con il potere

In un gruppo di vecchi contadini il discorso, a un certo punto, verte su li commannù’, sugli uomini che esercitano il potere e tutti ne parlano dicendone pèste e còrne, cioè tutto il male possibile. Ma uno dei vecchi, dopo aver lasciato che ognuno desse liberamente sfogo ai suoi livori, ha fatto osservare pacatamente: “Recordàteve, però: a lu callà, a stàje vicino te tigni o te scotti, ma se je stai londano no’ magni!” Tutti i presenti approvano dicendo: “Quésso ce lo sapimo tutti!

 

Per terminare una vicenda corta e simpatica

Il benestante

Un negoziante, dovendo concludere un affare con uno sconosciuto, per orientarsi gli chiede: “Dimme um bo’, tu ce n’hai de fratelli?” – “Ce l’àgghjo scì, e mmica unu: ce n’àgghjo sette!” – “Fréchete! E vve la passéte tutti vène?” – “Io scine, quill’atri fatiga tutti!

Nazzarena Luchetti

A 3 persone piace questo articolo.

Commenti

commenti