Dal piatto al pluralismo culturale

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Parabola dell’alimentazione

 

Il cibo, accompagnandoci nella vita, disegna un cerchio che va dal nostro istinto elementare di sopravvivenza a quello più evoluto di socializzazione e integrazione. La memoria gustativa prende forma sin da quando siamo nel grembo materno; i sapori e gli odori, a cui ci abituiamo nel corso degli anni, ci accompagnano per sempre costituendo il nostro background e condizionando abitudini da cui non ci separeremo. “Mangiare” è anche un esercizio di memoria: abbiamo desiderio di cibarci nuovamente di qualcosa che ci è piaciuto, perché il ricordo dell’appagamento procurato ci spinge a ripetere l’esperienza. Il piacere che il cibo dona è maggiorato dalla condivisione del pasto con altre persone, che abbiano anche abitudini alimentari diverse dalle nostre. Il cibo può essere l’anello di congiunzione fra tradizioni differenti. La gastronomia non porta con sé pregiudizi di razza, di sesso, di età ma, anzi, è intrisa di multiculturalità e tramite essa trovano punti d’incontro culture che, nella loro diversità, mantengono la propria ricchezza. Il cibo ha un’origine, una storia, una immagine, persino un suono o un rumore ed è sovranazionale, democratico (come lo definisce Petrini di Repubblica). Il “mangiare” è terreno fertile su cui crescono la tolleranza, la comunione, l’accettazione di usi e costumi sconosciuti, di conseguenza il pluralismo culturale e la libertà di pensiero e di azione. Dinanzi a un piatto fumante siamo tutti propensi a miscelare i gusti di varia provenienza e a sperimentare. Non ci spaventa cucinare il cuscous nordafricano o la paella spagnola. Allora perché facciamo tanta fatica a tollerarci tra popoli diversi? Dovremmo riscoprire i nostri aspetti più primitivi, cioè più genuini, per capire, con i maggiori mezzi cognitivi di oggi, che la diversità dei popoli e la biodiversità degli alimenti favoriscano la ricchezza di cultura, la condivisibilità, la comunicabilità. Serviamoci di un esempio molto elementare: avete pensato quante cose si possono capire dei nostri interlocutori vedendoli mangiare? Non a caso, è a tavola che si concludono affari di lavoro o si gettano le basi per rapporti futuri di qualunque genere. Seduti a mangiare in compagnia di una o più persone, difficilmente non si è inclini al dialogo, anzi si è portati ad abbassare le difese e a mostrarsi più malleabili con chi ci sta vicino.Inoltre, condividere un pranzo o una cena lascia trasparire davvero molto delle persone: dallo stile comportamentale, ai loro desideri futuri, agli schemi mentali da cui sono caratterizzate, ai loro sentimenti. D’altro canto, cucinare per gli altri seduce, disarma, elimina le distanze e, soprattutto, è un atto di generosità. Non a caso, la parola convivialità, che vuol dire genericamente “riunione”, “incontro” o “banchetto” nello specifico dell’ambito culinario o “amichevole” contrapposto all’aggettivo “formale”, ha il suo significato originario nel binomio “vivere insieme” (dal lat.: cum e vivere). Infatti, non si può certo negare che condividere in allegria un pasto con delle persone, in particolare con degli amici, sia una delle cose più piacevoli della vita. Il nostro sentimento non è frutto di nostalgici umori, è anche avallato dalle teorie socio-politiche di stimati intellettuali. Lo scrittore austriaco Ivan Illich parlava della convivialità in quanto contrapposta alla produttività industriale, sottolineando come una società che reprima la convivialità diventi presto preda della carenza. Egli precisava, altresì, che una conversazione attorno a una tavola consente di sedersi generosamente l’uno di fronte all’altro in una ricerca comune. Qui risiede il concetto di amicizia di Illich: “essa è una pratica permanente che coltiva la credibilità reciproca, il rispetto, l’impegno”. Chiudiamo il cerchio con un racconto di vita maceratese, un ulteriore messaggio su come il cibo aiuti la condivisione. Giorni fa i ragazzi dell’“Armadillo” di vicolo Ferrari hanno organizzato, per il compleanno di uno di loro, una festa in cui gli invitati, raggruppati in due fazioni di “pseudo-cuochi” muniti di abito da sera e grembiule da cucina, si sono dati alla preparazione del festoso banchetto avendo a disposizione solo ingredienti scelti dal festeggiato e impegnati in una gara culinaria con tanto di nomina del vincitore. La parte della competizione era liberamente ispirata a un noto reality gastronomico di Sky, con lo spirito goliardico e folkloristico dei nostri assai distante dagli scopi lucrosi del programma di impatto mediatico. Anzi, la competizione è stata teatro di rimescolamenti di squadra e di collaborazioni trasversali ritenuti necessari affinché il cibo risultasse almeno commestibile e agevolasse il prosieguo dei ludi. Unire le forze e i calici a ogni piccola “prodezza” culinaria (affettare un pomodoro!) è stato fondamentale per la preparazione delle pietanze e ha dato spazio a tanto divertimento, che era solo il preludio a una lunga notte di festeggiamenti tra buoni e affiatati amici.

Raffaella D’Adderio

 

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