Lurzà’, vottà’, ‘lluccà’, gumèra…

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Termini dialettali a cura

di Ubaldo Tantalocco

aratura

 

“Co le donne je piace da lurzà” scrive il poeta Giuseppe Procaccini nella poesia “Lo studente”. E’ evidente che il verbo “lurzà” è la versione dialettale dell’italiano “ruzzare”. E’ curioso che in questo caso la “r” si trasforma in “l”; il contrario di quanto avviene quasi regolarmente laddove è la “l” che diventa “r”: infatti “l’altra volta” diventa “l’artra ‘orda”, “salvare” diventa “sarvà”. “Vottà” come nome è la versione dialettale di “bottaio”, l’artigiano che costruisce le botti, come verbo significa “tirare cornate”. Il Ginobili nel suo “Glossario” riporta l’espressione “la ‘acca votta” = “la mucca tira cornate”. E’ un termine che non ha corrispondente nella lingua italiana. Nel trattato “Del parlar napoletano” di Renato De Falco, Colonnese Editore anno 2007, alla parola “Vuttà” ho trovato la seguente spiegazione: “primario – e autentico – significato è quello di spingere, urtare, premere, trasmettere un movimento”. Secondo l’autore il termine deriverebbe dal verbo greco (non dimentichiamo che Napoli fu fondata dai Greci) otheo, che ha l’analogo significato di “spingere, urtare”. Trovo altrettanto interessante la teoria che l’autore nel precitato trattato espone sulla etimologia del verbo “alluccà”, “’lluccà” nel nostro dialetto, secondo cui la derivazione risalirebbe al latino “adloquere” = parlare a più persone, arringare (di conseguenza, ad alta voce). Penso che sono pochi quelli che sanno che cosa è la “gumèra”. E’ il vomere. A prima vista può sembrare che non vi sia alcuna rispondenza tra i due termini. E, invece, c’è. La deformazione dialettale della parola “vomere” ha subito una mutazione fonetica della consonante “v” in “gu”, che si può riscontrare in altri casi come, per esempio, la parola dialettale “vizza”, che significa “sferza”, “scudiscio”, ha la sua variante in “guizza”, il verbo “avvezzare” diventa “’nguezzà”. “T’ha nguezzato cuscintra dilicatu// da prufumatte e comparì vizzusu” scrive il Procaccini nella poesia “Il padre al figlio ritornato da soldato”. L’esatto contrario avviene per il termine “giogo”, che nel dialetto diventa “viù” o “ju”: la “g” diventa “v”.  A proposito della equivalenza di “viù” e “ju” faccio notare anche il verbo “viastimà” o “biastimà”, che ha la sua variante (anche se meno usata) in “jastimà”. Analogamente il corrispondente nome “viastima” trova la sua variante in “jastima”. Si tratta, evidentemente, di suoni che all’orecchio dei nostri nonni sembravano intercambiabili o simili.

 

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