Minchiatine ginesine: parenti e serpenti

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di Cesare Angerilli e Tamara Moroni

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Cesare

Quando ero piccolo, non era come adesso che se la Vigilia di Natale non degusti un’insalatina d’astice, un misto di dentice, orata e spigola, non bevi un Sassicaia dell’88, ti senti un poveraccio, un fallito e la tua tavola ti sembra la mensa della caritas, sei triste mentre dovresti essere allegro.

Il cenone della Vigilia doveva essere di magro, solo che il magro di allora ti faceva prendere due chili e schizzare il colesterolo a 380.

Solo io e mia sorella Maresa ne eravamo immuni: di quello che si mangiava quella sera non ci piaceva niente, probabilmente andavamo a minestrina aspettando i regali.

La sera della Vigilia di Natale, innanzitutto, arrivavano tre zii paterni, Gino, Dario e Gigetto, quelli rimasti scapoli, signorini; era una tradizione, ché per loro sarebbe stato troppo triste passare la Vigilia soli e a spaghetti in bianco, che altro non sapevano cucinare.

Zio Gino arrivava con un bellissimo giaccone di pelle da motociclista e un berretto di tweed che sembrava irlandese anche se era di San Ginesio.

Sarebbe stato lui, quella sera, il capofamiglia, lui a sedere a capotavola, lui a tenere il tabellone della tombola: essendo fratello maggiore aveva svolto per tutti gli altri il ruolo di padre quando, quello vero, era andato in cielo che erano tutti ragazzetti.

La tavola era già imbandita con il servizio meglio che c’era, con tre quattro caraffe di quel vino fatto in casa che ogni anno veniva peggio; o spuntava, o sapeva di zolfo, o andava ad aceto e, insomma, era sempre una ciofeca. Io ero addetto a spillare il vino dalla botte, co’ lu sarvaì de rame per togliere il sapore dello zolfo che, invece, non andava via nemmeno a martellate.

Preghiera, Segno della Croce e si cominciava con la pasta di magro, quella fatta con il tonno. Allora la quantità aveva la sua importanza, non come adesso che si va ad assaggini, si degusta, allora gli assaggini servivano a capire se la pasta andava bene di sale, quella c’era e a ognuno ne toccava un paio d’etti.

Però c’era zio Gino e per zio Gino la Vigilia non era Vigilia senza anguilla, o capitone. Il capitone si comprava al mercato del pesce e delle verdure, in quel bellissimo mercato coperto dietro il teatro, dove adesso non c’è più niente, una scala antincendio al posto di allegre bancarelle. Non so perché quella bestiaccia di capitone si comprasse sei mesi prima e per sei mesi dovesse vivere in un secchio messo sotto lo sciacquatore. Io facevo visite giornaliere a quel serpente, mi ci affezionavo come a un pesciolino rosso.

Zia Marietta, la chef indiscussa, non amava quel serpente, aveva paura, gli faceva senso, ma c’era zio Gino…Tanto più che una volta la povera zia Marietta, alzatasi come sempre all’alba per accendere il fuoco e mettere su il caffè, inciampò nel natalizio serpente che, non si sa come, era uscito dal secchio, finì per terra, ci lasciò un polso e non vi dico quanto tempo e penare per riacciuffare l’evaso, che strisciava per casa veloce come un fulmine, che si andava a nascondere sotto ogni mobile e sfuggiva a qualsiasi presa, anche se la presa non era mai forte e decisa, tanto faceva schifo a tutti.

Insieme al capitone impanato e fritto, c’erano due cofane di papalina, fritta.

Il gobbo fritto e lesso non poteva mancare, piaceva a zio Gino.

Così appesantiti si passava ai dolci e allo spumante, panettoni Motta e Alemagna, le sottomarche non erano state ancora inventate, spumante italiano, tutto comprato da Libero lungo il corso.

Mentre già si stava attrezzando il sacchetto con i numeri, quello con il granturco e le cartelle per la tombola, arrivava il ponce. Te ne accorgevi perché sentivi rumore di coperchi, era zia Marietta, il ponce aveva preso fuoco. Zia Marietta era un’ottima cuoca ma il ponce non lo sapeva fare, o lo serviva troppo freddo o gli prendeva fuoco. Qualche volta, zitta zitta, ha provato a servire il ponce incendiato ma ai primi che è? è acqua? tornava a rifarlo.

La tombola era un divertimento, io e Maresa ridevamo da matti; i numeri si coprivano con il granturco, bastava un movimento maldestro e bisognava cominciare da capo. Si prendevano i soldi spicci, si dividevano in mezzo alla tavola per la cinquina, decina e tombola, a volta anche ambo e terna. Zio Gigetto non capiva mai un numero e chiedeva di continuo “è scappàtu l’8? è scappàtu lu 44?”, zio Dario a ogni numero interpretava la smorfia, zia Marietta gridava ambo quando era già stata fatta decina e babbo diceva mmìschja che me manca un numeru sulu.

Dopo tre o quattro passate di ponce e liquori vari, arrivava mezzanotte e si andava a messa in Collegiata, che le campane suonavano che sembrava Pasqua. Con i cappotti che sapevano di fritto fino a Quaresima inoltrata, uscivamo di casa. Nostro Signore, che allora ci voleva più bene, aveva creato l’atmosfera, una bella nevicata, ma non di quelle da una metrata, una ventina di centimetri, giusto per far capire che era Natale, senza creare disagi.

La messa, con il Te Deum cantato da Lucio de Colombo, era uno spasso. Non vedevi una persona adulta in stato di grazia: chi sbadigliava di continuo non abituato a quell’ora piccola, chi fissava il vuoto con lo sguardo spento da ponce e Vecchia Romagna, chi gonfiava le guance per far posto ai gas del suo apparato digerente.

Dopo la messa c’era la grande tavolata con il vino cotto e la pizza di noci, lì, in piazza, anche se nevicava, ed era bellissimo.

Ci si faceva gli auguri, ci si conosceva tutti, e si tornava a casa dove ci aspettavano quei bellissimi letti con le lenzuola di cotone bianco pesante e il materasso di lana, si toglieva la mònnica, si toglieva il prete, si indossava il pigiamino fustagnato e ci si addormentava felici.

Era Natale.

 

Tamara

Tolte le matte risate con tua sorella, io figlia unica, e l’avere a tavola i parenti che, scapoli o ammogliati, toccava invece a noi dal giorno di Santo Stefano andare in tournèe a casa loro, ho però impressi tanti tuoi stessi Natali della mia infanzia.

E chi, a esempio, non aveva il suo bel rettile a mollo in casa, a quei tempi?

La nostra anguilla soggiornava nella vasca da bagno che restava sequestrata ai normali usi per settimane intere. Più la guardavo, meno capivo che ci facesse lì dentro se, quando venne tirato su con un riattacco il primo bagno vero, mai avuto prima, fu una festa in casa che chiamammo tutti i vicini e anche i parenti lontani. Tanto più che manco mi piaceva cucinata in alcun modo. Ma tant’è, babbo aveva costruito il bagno, pescato nel vicino Fiastrella l’anguilla con la cesta che si era realizzato da solo, e lui la custodiva fino alla fine, quell’ospite non era in discussione; per lo sgombero della vasca c’era solo da aspettare che arrivasse l’antivigilia di Natale.

Meno invadente era invece la presenza dello stoccafisso, coperto d’acqua in una secchia poiché, come risaputo, si compra già morto, a pezzi. Ma che te la faceva scontare poi, una volta cucinato, con la sua persistenza appestante che non bastavano tutte le finestre di casa per mandarla via.

Pesci vivi e pesci morti a parte, verdura e uova di produzione propria, la scorta d’olio buono già in provvista da tempo, immagazzinata poco a poco a ogni passaggio del commesso viaggiatore Poloni, di Macerata, e il pane cotto a legna portato fino dentro casa da Renzo, che veniva col suo furgone da San Ginesio, tutto il resto andava nella lista della spesa. A occuparsene, come ogni santo giorno, era mia nonna, che con l’autorità di chi aveva attraversato due guerre mondiali, scampata a tutto e anche alla fame, si era presa il ruolo di contenimento degli entusiasmi d’acquisto di tutti gli altri componenti della famiglia, a cui il boom economico di quegli anni più facilmente prendeva la mano. Nonostante ciò finiva però, puntualmente, che da quella lista parsimoniosa uscita dalla penna di nonna, fatta di etti e unità di scatole e barattoli, dato che fare la spesa toccava materialmente a mamma, notoriamente più allegra nello spendere, con equazioni semplici gli etti diventavano chili di tutto: tonno, pasta, formaggio, noci, fichi secchi, mandorle, uvetta, cacao, canditi e cioccolato. Succedeva allora che mamma, tornata a casa a borse piene, causa trasgressione agli ordini di nonna, nascondesse velocemente negli angoli più improbabili di tutta casa ogni eccesso quantitativo. Cominciava così ogni anno in quel periodo la caccia al tesoro, quando era ormai ora di preparare le pizze di Natale, ché mamma non si ricordava più dove avesse messo ogni singolo ingrediente. Una volta pazientemente ritrovati, uno a uno, con la mia partecipata collaborazione, sempre, si procedeva a impastare quintali di miscugli profumati di cannella, neri come la notte, per tutto quel cacao che ci finiva dentro che, o perché scadeva, o perché scoperto, era da utilizzare il prima possibile. Finito, parte di quel composto assai sbrozzoloso per l’abbondanza di noci si metteva nelle teglie alte di alluminio, parte si arrotolava dentro quelle basse per il tradizionale serpente di Natale, “lu serpe”, cui spettava a me dare il tocco finale sopra la glassa, nel fargli gli occhietti con le perline di zucchero dorate e la linguetta rossa di candito, poi si copriva tutto con la sparetta e, infine, con tutte quelle teglie in mano si andava in lenta processione verso il forno, che ce le avrebbe restituite cotte alla perfezione.

Da quel momento in poi cominciava la fase due del nascondimento, questa volta del prodotto finito, dalla mia tentazione che, ingorda come ero di dolci, un consumo incontrollato mi avrebbe procurato una serie di imbarazzi, con grave nocumento per tutti e per l’intero periodo delle feste di Natale: meglio prevenire. Così, le nostre pizze di Natale, appena freddate, finivano dentro un mobile credenza, chiuse a chiave, insieme con i sempre presenti cioccolatini al liquore o al caffè, che mai potevano mancare per improvviso ricevimento ospiti. La chiave veniva custodita – manco a dirlo – da nonna, che la teneva dentro una tasca del grembiule che portava sempre addosso, e che toglieva solo di notte, ovviamente. Ma per il colpaccio, a me non serviva aspettare il calare delle tenebre, poiché nonna usava fare una pennica pomeridiana seduta vicino al fuoco, ed era un attimo, a quel punto, sfilargli la chiave. Fatto tutto in fretta e in punta di piedi, prendi la chiave, rimetti a posto la chiave, sempre attenta a non lasciare tracce, una volta aperta la cassaforte al ritmo rassicurante del russare di nonna, che solo quando veniva interrotto da lunghe apnee toglieva il fiato anche a me, dalla paura che nonna si fosse svegliata, anche se ne valeva la pena, c’era da strafogarsi. Che c’ero arrivata, lo si scopriva via via che le pizze venivano consumate, quando, tolte quelle davanti, restavano quelle dietro, visibilmente manomesse. Troppo tardi.

Con l’arrivo del giorno della Vigilia, i preparativi culinari si intensificavano, ma il mio interesse era ormai decisamente dirottato su altro: i regali che su richiesta mi avrebbe portato Babbo Natale, e non solo.

Quello che non mi convinceva e mi dava filo da torcere, era poter capire da dove potesse mai infilarsi Babbo Natale in quella nostra casa, che io conoscevo centimetro per centimetro. La cosa, come diresti tu, puzzava. Dalle finestre in basso non era possibile, non ci riuscivo io con le inferriate che c’erano, figuriamoci uno grosso come Babbo Natale; dalla finestrella della cantina, ma nemmeno il sacco ci sarebbe entrato; dal portoncino sicuramente no, che c’era il catenaccio; dal camino pure mi pareva impossibile, se io c’ero rimasta incastrata una volta nel tentativo di risalirlo da sotto lungo la canna fumaria. Allora? Ma da dove entrava? Questo è il motivo soprattutto per cui la Vigilia si chiamava tale per me,fin troppo vigile come ero per beccare in flagrante Babbo Natale.

Come in ogni Vigilia poi che si rispetti, arrivava il momento che seduti a tavola, prima di iniziare la cena, veniva letta ad alta voce la letterina a Gesù Bambino, da me scritta prima in brutta copia e poi col righello sull’originale, dove ancora restavano i segni delle linee tracciate a matita per andare dritta. Il rito dello scoprirla, sorpreso, sotto il suo piatto spettava a babbo, che con me davanti cercava inutilmente di vestire la faccia più seria possibile. Tutti sapevano, io per prima, che in quei buoni propositi messi per iscritto, qualcuno mentiva sapendo di mentire (una dichiarazione annuale di falso incredibile) ma era ed è questa la magia del Natale, credere, credere che ogni cosa desiderata, promessa, che ogni cosa bella, e solo quella, possa accadere.

BUON NATALE !

 

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