Problematiche liciniane

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di Lucio Del Gobbo

licini-opera

 

La recente manifestazione civitanovese Cartacanta, il ritrovamento di un’opera sin qui sconosciuta (la “Madonna della Pace” o “Regina Pacis”, copia del dipinto secentesco della chiesa di Sant’Agostino a Fermo, un ritrovamento avvenuto quasi per caso raccontato dallo scrittore Angelo Ferracuti, insieme con Daniela Simoni, direttrice del centro Licini e dai critici Domenico Pupilli e Pietro Mezzabotta.) e infine una performance dell’artista Silivio Craia coadiuvato dai cugini Rodolfo (letture testi e improvvisazioni sceniche) e Vittorio (improvvisazioni e composizioni musicali) hanno recentemente riportato l’attenzione su Osvaldo Licini, grande artista marchigiano del secolo scorso. Vogliamo anche noi ricordarlo con una breve riflessione che riguarda lui e alcune vicende relative alla sua opera. Ci si chiede se Licini fosse conscio del grande seguito e consenso che la sua ricerca avrebbe suscitato nel tempo, e se fosse consapevole dell’importanza di ciò che stava creando, in relazione anche al contesto contemporaneo nazionale e internazionale. Alcuni sostengono di sì, ma la vita che l’artista fermano conduceva negli ultimi decenni, dopo il ritorno a Monte Vidon Corrado, ripiegata su una dimensione intimista, così solitaria e riservata, porterebbe a credere il contrario. Certo è che Licini era ben consapevole del valore della spiritualità in contrapposizione alla concretezza e al realismo che invece sembrava richiedere il sistema di vita a lui contemporaneo – che poi è quello attuale! – e soprattutto aveva ben presente l’esistenza di un mistero impenetrabile che avvolge i destini e la sensibilità umana. A questo arcano egli sapeva di poter affidare la sua fantasia e i suoi sentimenti; e ciò nel momento stesso in cui sentiva d’essere

chiamato anche alla concretezza, tuttavia non priva di idealismo, della politica. Sindaco del suo piccolo paese, forse avvertiva che proprio l’abbandono al fascino dell’enigma era il suo antidoto: favoriva e legittimava in lui un innato bisogno di libertà e persino di ribellione al senso contingente delle cose e al comune sentire. Da qui il suo amore per i simboli arcani: le costellazioni e la luna, la cabala, le amalassunte e gli angeli ribelli. Lo strumento di convivenza con essi non poteva essere che l’arte: la poesia ma, in primo luogo la pittura. Essa poteva rendere dimostrabile nella suggestiva variabilità dei colori e nella ambiguità dei segni una via esclusiva di indagine e di compenetrazione: la soluzione personale di quel mistero di cui si è detto. L’arte ne manifestava esemplarmente la poesia e il fascino. L’abbandono eroico e romantico a essa ha costituito la sua grandezza d’artista, conferendo una seduzione bizzarra e magica ma universale alla sua espressione, e un’assoluta originalità di linguaggio. È probabile che l’assegnazione del Gran Prix di Venezia, e soprattutto l’attenzione e la stima dei critici che maggiormente lo avevano sostenuto, avessero reso convinto anche lui della giustezza del suo metodo. La morte sopraggiunta di lì a poco, non diede il tempo né allo stesso artista né al pubblico dei suoi estimatori, di considerare appieno e di sottolineare l’importanza di questa sua storia personale. Ma poi un’altra storia, quella della letteratura critica e dell’arte in generale, avrebbe comunque provveduto a sistemare congruamente, inserendo Osvaldo Licini nella schiera dei grandi artisti moderni.

 

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