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Tratte da “Dicerie popolari marchigiane”

di Claudio Principi

 

 dicerie-popolari

Il corista

Un artigiano montolmese sui quarant’anni di età e che era in possesso di una bella voce baritonale, venne convinto dal maestro di cappella a far parte del coro locale che si era formato da non molto. A convincerlo furono anche alcuni amici che già ne erano partecipi e gli assicurarono si sarebbe divertito perché il complesso era affiatato e il maestro un buon diavolo. Altri suoi amici, non vedendolo più frequentare la cantina (l’osteria) in alcune sere della settimana, gli chiesero la ragione di quella sua saltuaria diserzione e il neo corista rispose che in quelle sere era impegnato con le prove del coro, precisando: “Oh, quanno che cce struìmo pe’ le pròe, adè un divirtiméndu da non créde’: se jòca a ccarte, se jòca a lu schiaffu de lu sordatu, a bbattimuru, e ppo’ se vé, se vé ch’adè un piacere!” (Oh, quando ci ritroviamo per le prove, è un divertimento da non credere: si gioca a carte, si gioca allo schiaffo del soldato, a battimuro e poi si beve, si beve ch’è un piacere!). Chiese allora uno dei presenti: “Ma, famme capì’: e quann’adè che candéte?” (Fammi capire: quand’è che cantate?). Rispose il corista: “Candimo quanno ce ne rghjmo a ccasa!” (Cantiamo quando ce ne torniamo a casa!).

 

Le romanze di Vucalò

Un popolare gobbo di Macerata, un casettà, fu Guartiéro de Vucalò da molti ricordato come compagnone ma anche forte bevitore, come il soprannome evidenzia (Vucalò da boccale da 2 litri). Lo si ricorda anche come innamorato del bel canto. Aveva una bella voce tenorile e spesso, nelle osterie, dopo aver ‘ngrottato un bel po’ di vino si abbandonava alle romanze d’opera con gran spasso degli astanti. Memorabile la deformazione che amava fare di una celebre romanza, quella di Mario Cavaradossi nella Tosca di Puccini:

 

L’ora è fuggita / ed io muoio disperato / e non ho mai tanto amato la vita, / tanto la vita!

 

Ebbene, il nostro Guartiéro approfittava di questa romanza per fare, da buon beone, la lode della vite, per cui cantava con impegno:

 

L’ora è fuggita / ed io mòro disperato / e non ho mai tanto amato la vite, / tanto la vite!

 

Va da sé che nell’acuto finale metteva tutta l’anima e lo faceva durare fino a schiattare, strappando così urla di approvazione, battimani a non finire e offerte di vino da bere al momento. Di lui da notizia anche il poeta dialettale maceratese Eriodante Domizioli che, prendendo spunto dalla gibbosità che lo caratterizzava, scrisse:

 

Non z’è capito mai comme je vinìa fòri quella voce cuscì ttonna e qull’acuti cuscì lunghi, issu, cuscì picculittu e stortu. Polèsse che la gobba je facìa da cassa armonica (…) e che je facìa pure da màndice de fiatu de rinforzu… chi ro sa!

 

 

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