Longobardi che passione!

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di Medardo Arduino

 loro ciuffenna.capitello

Loro Ciuffenna (AR), chiesa – decorazione di capitello

 

Per introdurre il tema, vi propongo la sceneggiatura di un western, perché a questo tipo di film e ai suoi esiti siamo più abituati e possiamo immaginarlo facilmente: è ambientato nella sconfinata pianura fra il Pecos e il Rio Grande, dove le mandrie di John Mulloch pascolano serene, sorvegliate da decine di cow boys dai nomi esotici: c’è Frisco che viene dalla California, Pedro da Alamo, Mc Intyre e O’Railly che non si sa da dove vengano. Hanno tutti i jeans, i sovra pantaloni di cuoio, il fazzoletto al collo, la Colt Paterson in fondina e l’immancabile Stetson in capo; quando portano le mandrie ad Abilene sono affiancati da “pistoleros” per una maggior sicurezza. Da qualche tempo gli agricoltori sono arrivati con i loro carri nella valle, hanno piantato pali di confine e recintato i loro campi di mais col pretesto che al capoluogo della Contea non ci sono proprietà registrate tranne la fazenda dove vive John e la sua bella figlia Sue. Gli agricoltori non sono pistoleros, infatti una delle scene madre è quella del coltivatore che cerca di difendere dal passaggio dei bovini il campo seminato brandendo goffamente una doppietta. Sappiamo come andrà a finire: il Cavaliere Oscuro arriverà sul suo broncos caracollando e farà trionfare la giustizia, prima di scatenare un amore impossibile nel petto di Sue Mulloch. Cambiamo continente e cambiamo secolo, siamo in pianura (pardon, palude) Padana, ci sono sempre gli allevatori, più pecorai che altro, John Mulloch è vestito diversamente e si chiama Austulfo, sua figlia si chiama Gilberta. Austulfo ha sempre i suoi cow boys, ma si chiamano pastori, hanno delle picche anziché le pistole, sono Teud, Bert, Lud, e altri nomi compositi, sono tanti di più rispetto ai cow boys ed hanno con loro mogli e figli, sono anche loro accompagnati da professionisti della mazza e del giavellotto, forse più caccialupi che cacciauomini che ubbidiscono al capo del clan più ricco di armenti quindi più “solvibile” nei loro confronti: sono indispensabili per garantire la sicurezza negli spostamenti necessari alla costante ricerca dei pascoli. Da più generazioni si muovono nell’ampia pianura acquitrinosa del Po che qualcuno chiama Eridano, dove l’instabilità dei corsi d’acqua da un lato e lo scarso popolamento dall’altro hanno suggerito ai Celti, che sono agricoltori da sempre, di scegliere le colline e le prealpi, per mettere a maggese le terre e delimitarle da cippi di confine e toponimi per contraddistinguerle, perché nei territori di mezza collina, fin dove la pendenza lascia salire l’aratro, c’è quella stabilità intrinseca che non richiede opere collettive di manutenzione dei corsi d’acqua, soprattutto in un periodo, il VI sec., nel quale è venuta a mancare l’autorità di controllo e di organizzazione del territorio. Due etnie forse e due mestieri, uno legato alla stagionalità dei pascoli di vegetazione spontanea, l’altro a quello della terra dissodata, seminata e curata tutto l’anno. Non sono in conflitto etnico o “politico”, finché c’è terra per tutti, a eccezione forse dell’invariabile dell’animo umano per cui per taluno l’erba del vicino è sempre più verde. I clan di pastori si sono organizzati in gruppi di dimensioni definite dalle esigenze pratiche di controllare e convogliare le greggi secondo cicli pluriennali di transumanze e, per non entrare in conflitto o forse per non esacerbare le contese per i buoni pascoli, si sono dati un’organizzazione che oggi diremmo “federazione” con un Capo, o forse meglio la famiglia allargata di un Capo con funzioni di guida super partes e giudice delle controversie. La regione cisalpina è fertile e climaticamente favorevole, i pascoli sono abbondanti e la “clientela” è numerosa, costituita da contadini locali raggruppati dai Monaci, dai Mercanti e dagli artigiani delle poche concentrazioni urbane ex romane. Gli scambi sono sufficienti a creare quel benessere sociale e individuale indispensabile allo sviluppo demografico. I pastori-allevatori crescono di numero e si espandono nella necessaria ricerca di nuovi pascoli arrivando a lambire i confini delle terre coltivate anche nelle zone collinari, scendendo lungo quasi tutta la penisola, ma scelgono di mantenersi sui crinali dei poggi, dove è più facile controllare le greggi e dove nessuno si lamenta se costruiscono dei chiusi in pietra e delle piccole costruzioni dedicate ai loro santi protettori, soprattutto all’Arcangelo Michele. Lì questi pastori, che per la secolare permanenza nell’area della latinità hanno abbracciato la religione cristiana e usano anch’essi il latino per comunicare con i locali, si rivestono di una nuova cultura perdendo le labili reminiscenze d’origine, poco ribadite nella coscienza di clan a causa del nomadismo. Hanno anche perduto il loro nome etnico e non si sentono affatto offesi se l’etnia egemone li battezza “Lunghebarbe” forse per la loro abitudine di risparmiare sul rasoio. Ma anche gli agricoltori e i soldati di mestiere aumentano di numero e la terra diventa sempre più richiesta: come nel far west, a un certo punto si scateneranno le lotte “di classe” fra allevatori e agricoltori, ma nel nostro caso sono “gli stanziali”, e fra questi la loro oligarchia, quelli che la spada la maneggiano per mestiere, a chiudere la partita assoggettando i clan longobardi al loro Re, ma come vuole la trama del film, il cavaliere oscuro che ora si chiama Carlo, sarà folgorato dalla bellezza della bionda Sue-Ermengarda figlia di Mulloch III-Desiderio e ne farà la sua regina. Nella prossima puntata, con meno leggerezza, analizzeremo le evidenze nella cultura e, fra le righe della storia storiografata dei Longobardi, quelle situazioni corrispondenti alla sceneggiatura del mio film.

 

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