Alla mia città

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di Martina L. Piermarini

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Alla vigilia delle imminenti elezioni comunali, sento l’inguaribile necessità di riflettere e di farlo ad alta voce, un po’ come fa chi, nel giorno del suo compleanno, si mette di fronte allo specchio e cerca di tirare le somme della sua vita sforzandosi di guardarla per una volta da un’angolazione diversa, forse poco consueta ma affinché ne valga la pena. Detto questo vi dirò che, guardando a ritroso negli anni, contando le ferite più o meno rimarginate e quelle che non guariscono, la cosa che salta agli occhi da questa parte dello specchio e dopo aver tolto le bende dalla faccia, è che il mondo o meglio, la grande famiglia umana, ha un dannato bisogno di rivoluzionarsi. E il bisogno di rivoluzione non passa mai di moda, se a chiederlo è un urlo dilaniante che ci perfora i timpani giorno e notte e se questo bisogno vuole e deve partire da altre menti. C’è bisogno di rivoluzione come di respirare, come di una unità coagulante che rinnovi i cervelli e gli spiriti abbandonati sul fondo di noi stessi, relegati negli angoli bui e terrorizzati dall’ombra dei loro stessi passi perché l’agghiacciante verità è che pronunciare oggi, davanti a questo specchio, la parola “ democrazia” ha lo stesso effetto (forse ritardato ma elevato alla potenza), di un colpo di mortaio. Perciò, come disse un giorno un grande poeta: “Nella smania di spenderci del tutto diamoci un potere nuovo” : quello di fermarci ad ascoltare un orologio diverso, posizionato in uno spazio diverso, che non ha nulla di sfarzoso, nessun meccanismo complicato eppure è il rintocco di una voce che ci ricorda da dove viene il nostro nome. Da epoche lontane, lontanissime e che proprio per la loro intatta nitidezza passano attraverso gli anni, epoche in cui le chiavi di una città servivano per aprire e non per chiudercisi dentro a doppia mandata, epoche in cui la parola data significava onore e onore significava Vita. Veniamo da dove un simbolo era più della panoramica di un volto con scritto “IO” (semmai ci sarebbe stato scritto “noi”). E non facciamo gli ipocriti, perché qui davanti le maschere cadono come mosche alla prima folata di vento, e perché gli errori ci sono e permangono. Non basta cambiare l’etichetta! Sarebbe invece “rivoluzionario” dire “Ho sbagliato e ne pago il conto”. Perché non impariamo qualcosa dalla storia? Da personaggi come Padre Matteo Ricci che ebbe la straordinaria capacità di comprendere che il sincero confronto è sempre un’arma vincente perché solo in esso l’uomo cresce con l’uomo. Lui lo fece secoli fa dall’altra parte del mondo, noi oggi, con tutta la nostra tecnologia, la rete, con informazioni che circolano da un capo all’altro del mondo, non sappiamo sostenere un dialogo con la nostra stessa cultura e ancora ci ostiniamo a ragionare a compartimenti stagni. Perché ci fa così paura ammettere che le più grandi vittorie l’uomo le ha riportate con lo spirito? Basta pensare al Mahatma Gandhi, a Michelangelo, a San Francesco, a Mario Luzi, ad Alda Merini, a Joyce Lussu. Perciò quello che questo specchio ci chiede è “Alzatevi dalle vostre poltrone logore o appena comprate e tornate nelle piazze come fosse la prima volta, liberi da maschere e bende che vi s’impigliano ovunque” e magari scopriremo che c’è anche una lancetta che non corre, che non batte per la desolazione nello sguardo, per l’abbandono degli spazi, per il totale, invasivo appiattimento delle menti; scopriremo che una città non è Città se non ha “il segreto di una pelle che appartiene a Tutti”. E infine, vi prego, osserviamo non un minuto ma nove minuti di silenzio. Osserviamoli non per i morti ma per noi, che passeggiando nelle piazze spoglie, superbamente, ci crediamo vivi!

 

 

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