Hospice: una storia vera

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 Perché si fa soffrire un essere umano quando,

oggi, la sofferenza si può alleviare?

sonia e fernando ad arad da peter 

Scrivo questa pagina in prima persona e sono stato molto indeciso se scriverla. Per il rispetto che ho verso la persona coinvolta e per la sofferenza che si rinnova. Mi ha fatto decidere il dovere del giornalista di fare informazione corretta per evitare sofferenze inutili al prossimo. La mia insegnante di Yoga, Sonia, persona cui sono legato da un profondo affetto fraterno, ha scoperto di avere un tumore ai polmoni. La malattia si è acutizzata a gennaio 2015; a una Tac e a una risonanza magnetica si è visto che erano state attaccate le ossa e il cervello. A febbraio la parte destra del suo corpo ha cominciato a paralizzarsi: difficoltà di deambulazione e difficoltà a usare la mano destra. Ci si è messa pure una brutta influenza con crisi respiratorie. A metà febbraio toccava aiutarla in tutto, anche a imboccarla (qui ringrazio Cinzia per la sua dedizione verso Sonia e le allieve che l’hanno sostenuta: Novella e Michela). Poi la corsa in ambulanza fino all’Ospedale di Macerata, era messa davvero molto male. Al Pronto Soccorso arriviamo alle ore 12:58 del 24 febbraio, sistemata in barella sul corridoio per 14 ore e 20 minuti, moribonda. È superfluo ogni commento. Condotta in reparto la attaccano alle flebo in modo massiccio e la cura ha un suo effetto: Sonia si riprende in pochi giorni, ha appetito, parla (prima non riusciva più a parlare perché non poteva connettere il pensiero alle parole), ricomincia a camminare. Però, in parallelo, c’è un problema: è super eccitata. Se ne rende conto a tratti, protesta, con frasi sconnesse si appella alla sua dignità (ho capito dopo quel che voleva dire, al momento non era facile comprenderla) invia sms di aiuto. Infine, visto che non riusciva a comunicare il suo stato, si strappa l’origine della sua sfasatura mentale: la flebo. Non vuole più cure, vuole essere presente a se stessa. Non per nulla è la migliore insegnante di Yoga, che fa della consapevolezza una questione di vita. Nel momento in cui non accetta più le cure salta il “protocollo” e saltano altri “nervi”, tanto che un dottore afferma: “Questa è una rottura di cojoni!” (Costui mi dava le spalle e non si è accorto che ero lì dietro a sentire). Lei ci mette del suo perché i farmaci e il tumore al cervello le danno una visione alterata della realtà. Una cosa la sa bene, vuole uscire dall’Ospedale. Scappa una prima volta e una conoscente la riporta indietro (redarguita: avremmo avvisato i Carabinieri e l’avremmo dimessa!); la seconda volta la lasciano scappare e firmano subito la dimissione volontaria. È il 18 marzo 2015. È stata dimessa malata, in stato confusionale, debolissima, sta in piedi solo con la forza dei nervi. La situazione precipita, vengo avvisato che è in corso Cairoli. Non posso muovermi, sono a un incontro con l’Ordine dei Giornalisti, tre allieve (Rossella, Elena e Sara) la raggiungono, io sono in contatto con la Polizia di Stato che invia una pattuglia (la PS è stata di una disponibilità eccezionale durante tutto l’evento), chiamo il 118 affinché invii una ambulanza. Va detto che Sonia stava attendendo da giorni l’arrivo dalla Romania di suo fratello Peter. Riesco a liberarmi dall’impegno con l’Ordine e vado di corsa giù in corso Cairoli. Il dottore dell’ambulanza si rifiuta di far salire Sonia perché è stata dimessa dall’Ospedale! Le sue allieve la accompagnano all’Hotel dei Colli, dove lei aveva tenuto lezioni di Yoga, ma qui in preda ancora a un forte squilibrio mentale vuole andare via. Fortuna vuole che arriva Peter al momento giusto. Lo abbraccia e si abbandona a lui. È sfinita, i nervi hanno ceduto. Andiamo a casa mia, facciamo festa, Sonia è felice, mangia e brindiamo con la vernaccia, ne assaggia appena un goccio con le labbra. La convinciamo a ricoverarsi all’Ospedale di Tolentino dove aveva già un posto riservato. Il mattino dopo la portiamo a Tolentino, sviene due volte per la debolezza. Qui i dottori e tutti gli operatori sono sempre stati cortesi con lei, a malincuore accettano la sua richiesta di non essere curata, non vuole flebo né altre medicine: per tutto il periodo in cui è stata loro ospite sono stati evidentemente dispiaciuti di non poterla aiutare. Ma hanno rispettato la sua volontà. Qui si è ripresa psicologicamente, barricata nel suo lettino, con il comodino a fare da schermo agli altri, circondata da sue poche cose. Mangiava solo quello che cucinavo e le portavo da casa, pranzo e cena. Quando, siamo all’inizio di maggio, la situazione fisica di Sonia riprende a peggiorare visibilmente (paralisi progressiva fisica e mentale) decidono di portarla all’Hospice di San Severino. Qui non accetta alcun tipo di cura, ancora è sotto choc per i fatti di Macerata, il dottor Giorgetti a vederla così sofferente, impossibilitato ad aiutarla, è affranto, dispiaciuto è anche il personale infermieristico e le operatrici socio sanitarie: tutti la trattano con molto affetto. Quando non è più autosufficiente in nulla e deve subire il pannolone, riesco a convincerla ad accettare le cure palliative. Iniziano subito. In tre giorni sta meglio, si alza, mangia al tavolo da sola: è rinata. Ritrova il sorriso. Riesce a uscire dall’Hospice per brevi passeggiate, lavora con il computer dove scrive un quarantina di pagine di pensieri spontanei e semplici. Sta bene. Non è più l’insegnante di Yoga ma è diventata una bambina simpatica a tutti. Intorno a lei giostrano l’aromaterapeuta, la psicologa, la fisioterapista, il ragazzo della musicoterapia, le sue allieve (tante ma Rossella, Elena e Simona sono eccezionali! almeno quanto tutto il personale, nessuno escluso). Poi c’è l’epilogo, l’inevitabile peggioramento, la morfina contro il dolore e la richiesta con un fil di voce: “Dammi affetto, dammi affetto…” le abbraccio teneramente il capo, un bacio in fronte e, dolcemente, spira. Oggi, con la conoscenza acquisita, dato che era ormai incurabile, l’avrei subito sottoposta alle cure palliative. Le avrei risparmiato tanta sofferenza fisica e mentale, avrebbe vissuto molto meglio i suoi ultimi otto mesi di vita. I medici dell’Ospedale di Macerata, più esperti di me, non sanno queste cose? Non sanno che il malato è una persona in difficoltà e non una “rottura di coglioni”. Non conoscono le esperienze altrui? Non sanno vedere un “terminale”? Non voglio risposte. Vorrei solo che riflettessero ponendo la persona umana al primo posto.

Fernando Pallocchini

 

 

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