Passeggiata con Dolores Prato

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È un caldo mercoledì pomeriggio agostano, eppure puntuali davanti alla pro loco ci sono trenta persone, per la maggior parte non treiesi, in attesa del giro turistico per le vie di Treia. Sarà un percorso misto tra visite ai monumenti e a luoghi non usuali, con intermezzi recitati da voci narranti e attori in costume, perché il filo conduttore sarà, ancora una volta, la scrittrice Dolores Prato. Ogni rappresentazione è leggermente diversa, cambiano i vicoli, le piazzette, si scoprono nuovi scorci, nuove finestre, porte sprangate che fermano il tempo. Ci si immedesima facilmente nel mondo un po’ antico e solitario di questa bambina “forastica”, dalle acutissime capacità di osservazione e memorizzazione. Il suo libro più famoso, “Giù la piazza non c’è nessuno” consta di ben 701 pagine, che scorrono veloci lungo la sua infanzia e la prima giovinezza, quando a 18 anni se ne va da Treia, per diventare brillante insegnante e scrittrice, e vi tornerà solo dopo la sua dipartita terrena. Chi ha curato la grafica del libro ha liberamente posto in copertina l’immagine di una raffinata ragazza, slanciata, che non è Dolores ma una sua compagna di educandato. Non era consapevole, il grafico, che la vera Dolores ci sarebbe stata bene in primo piano, malgrado l’aspetto paffuto e il naso rotto, perché il suo sguardo un po’ triste ma vivacissimo, ha una luce rara, che parla al lettore: nell’immagine con la suora è l’unica a fissare il fotografo, ne avrà scrutato ogni espressione, studiato ogni movenza, immaginato ogni pensiero. In età adulta, a Ro-ma, scrive: “Anche adesso se sbuco da Via dei Penitenzieri, guardo sempre a destra, pendono ciuffi di capperi dalla muraglia sbiadita della Città del Vaticano; non importa che questo sia un muro storico, un muro fortezza, nell’impatto del mio sguardo con quei cadenti ciuffi di verde lucido, per me è subito Treja. La pianta dei capperi, una nobile tra tante plebee, sapeva essere signora anche nella povertà, come la zia. È il nome che le rovina; sono chiamate erbacce perché non servono ad alimentarci. Dei fiori solo le violette si mangiano candite; gli altri si coltivano per la loro bellezza; qualche volta quelli delle erbacce li superano, ma per favorire quelle coltivate, le erbacce vengono strappate senza pietà. Non sono erbacce, sono piante sacrificali. Se mio zio invece d’insegnarmi i solstizi mi avesse insegnato a conoscere le erbacce, mi avrebbe lasciata un’eredità inesauribile di meraviglie”. Treia è ancora piena di capperi aggrappati alle mura, che quasi nessuno conosce e utilizza; anche a noi viene insegnato cosa sono i solstizi ma non conosciamo più le erbe. Forse per molti tutto il verde intorno è “erbacce”. Forse è ora che cresciamo, per sentire e trattare Treia un po’ più come nostra, per pensarla con affetto come Dolores la ricordava da grande. La sua vita lontano da qui, ci verrà raccontata in autunno con una nuova pubblicazione: Treia sarà sempre  tra le righe, nei pensieri di “Lolita” (così la chiamava la zia). Nel bene e nel male l’infanzia ci segna, ci insegna e ce la porteremo dietro per sempre, con il suo vago alone di favola.

01 ottobre 2016

 

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