Langue d’oc e langue d’oil

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Sì, siamo arrivati proprio a questo! O no? In questo contesto del significato e uso della parola questo mi pongo qual dilettante, ma pourquoi pas (ndr: perché no?) se storici, storici dell’arte e sedicenti ricercatori storici trattano aspetti architettonici evidentemente connaturati ai requisiti statico strutturali come risultati di esoterismi o fatti spirituali, ignorando la buona regola del “mattone che pesa”. Perciò mi si consenta questa invasione di campo senza pretese…

 

La Chanson de Roland

L’argomento è la diffusione del latino popolare o volgare dal centro Italia alle aree transalpine occidentali, quelle che ancor oggi si esprimono in lingue “romanze”. L’occasione di rifletterci mi è stata offerta dalla nota Chanson de Roland cantata in origine in “roman” poi differenziatasi a opera dei trovatori nei due gruppi di lingue popolari romanze del sud est e del nord della attuale Francia. Le cosiddette lingue “d’oc” e “d’oil”. Linguisti e letterati continuano ad accettare senza dubbi o perplessità il fatto che le espressioni lingua d’oc e lingua d’oil si riferiscano al modo di pronunciare e scrivere l’avverbio affermativo nei paesi oggi francofoni, facendo un distinguo fra i territori del “midi”e del nord. Questo anche se le regioni del sud storicamente d’influenza culturale aragonese e catalana a ovest, piemontese a est, si definiscono grossolanamente tutte “provenzali” anche se la Provenza vera e propria è la porzione più orientale del mezzogiorno francese, che è entrata a far parte della attuale Francia solo dalla metà del XVIII secolo.

 

Hoc e hoc ille

Sappiamo che la “langue d’oc”, ovvero il provenzale, è così definita perché derivata dall’uso dei romani che, in assenza di una particella specifica, affermavano utilizzando “hoc” e quindi i provenzali romanizzati in assenza del nostrano si sono arrangiati con “oc”, mentre al nord, sempre a causa della romanizzazione, si affermava con “hoc ille” divenuto poi “oil”. I letterati sanno che la ragione dell’uso di hoc, hoc ille nelle lingue romanze francesi, si vuole venga dal De Vulgari Eloquentia di padre Dante, che lega questi “sì” transalpini al nostro sì toscano, ma anche in questo caso la spiegazione non possiamo leggerla sul documento originale,  ma solo su trascrizioni molto più tarde e “integrate” delle parti mancanti della trascrizione più antica negli archivi Vaticani. Si vorrebbe cioè che le principali lingue romanze siano contraddistinte dalla particella affermativa che non esistendo nel latino era sostituita da hoc (questo). In Italia, luogo d’origine del latino, l’affermazione diventa , e in Spagna se o asì, mentre in modo assai curioso in Francia nel midì sarebbe diventata oc e al nord oil.

 

Alla ricerca di “oc” e “oil”…

Conoscendo in modo seppur approssimato i dialetti del midì orientale e il francese corrente, non ho mai incontrato, così come nell’arpitano e nei dialetti langaroli e liguri, storicamente legati alla “Provincia romana”, né nel parlato e tantomeno nello scritto antico, alcun suono affermativo prossimo o corrispondente al famigerato “oc” e men che meno affermazioni che suonassero “oil”. Se le “lingue romanze” di Francia usavano queste affermazioni, mi sono chiesto più volte perché non le si trovino scritte e neppure parlate, visto che ho trovato solo un oc in un dizionarietto provenzale del 1800, ma stranamente scritto con una cediglia sotto la o che non posso riportare perché non esiste neppure nei caratteri di “office”. Oc e Oil li ho cercati nelle poesie trovadoriche e nei più famosi componimenti del cantar cortese di Chretien de Troyes e dell’anonimo autore della Chanson de Geste, soprattutto nell’ultima perché la biblioteca di Oxford offre lo “scan” integrale del manoscritto più antico che si conosca della canzone di Rolando, che si vuole scritto in “anglo normanno”, una delle langues d’oil.

 

Esce fuori un… “Co”

In questo manoscritto trovato in un fondo d’archivio e pubblicato nell’800 (che certamente fa più fede di mille “autorevoli opinioni”), non c’è barba di oil per esprimere affermazioni, ma si usa invece la particella “co” (da pronunciarsi “se”, ma con la e della pronuncia francese e non con la nostra). Nelle trascrizioni di questo testo, (per leggere il quale essendo in metrica non servono e non ci sono separazioni fra le parole, punteggiature, apostrofi o accenti), la particella cooriginale nelle edizioni a stampa recenti viene trascritta Ço, acquisisce cioè una cediglia sotto la C che a quei tempi non avrebbe avuto alcun valore fonetico specifico, in assenza di una grammatica condivisa, (che ci sarà solo con Luigi XIV) visto che ora la “ci” senza cediglia si pronuncia “esse” quando incontra e e i, ma a quei tempi questo poteva essere estensibile a ogni vocale a discrezione dell’autore. Ricordo l’aneddotodei “vespri siciliani” dove per identificare gli angioini si faceva leggere alle persone la parola “ce ci” (che per un francese significa questo qui e si pronuncia “sé si”). Ma proprio perché hoc in latino significa questo e questo in francese si scrive CE, perché mai “questo” ovvero ce che è la traduzione acclarata del vocabolo latino hoc, avrebbe dovuto invece trasformarsi in oc oppure oil (pronunce decisamente ostiche per un francese), soprattutto se ancora si esprime con ce e a quanto parrebbe con co nel XIII secolo?

 

Il toponimo trasformato

In conclusione la mia opinione personale, offerta alle vostre critiche, è quella che qualche saccente di un passato abbastanza recente, secolo più secolo meno, completamente avulso dalla cultura come dalle lingue del popolo, leggendo gli scritti nei nascenti volgari transalpini, senza il supporto della benché minima regola fonetica conosciuta, (tutti i linguisti sono concordi sull’assenza di regole grammaticali) abbia voluto forzare il toponimo francese, scritto tuttoattaccato LANGUEDOC nelle pergamene e anche nei più antichi testi a stampa, trasformandolo in una indicazione linguistica cioè LANGUE D’OC, giocando con inesistenti apostrofi. A questo punto anche io, ricordando che nel catalano e nel piemontese come nel “provenzale” alcune consonanti si auto sostengono senza necessità di vocale, ma con un semplice apostrofo, mi permetto di scrivere che oltre alla “lingua del sì” italiana esisteva la “LENGUO DO ‘C[e]” parlata a cavaliere delle Alpi Marittime proprio perché dalla Catalogna al Piemonte il nostro sì suona , che sia scritto con la “esse” o con la “ci” ed è cugino primo di quel co che si legge nel manoscritto di Oxford. Se oggi tutto il midì dice anziché oui è solo perché il centralismo scolastico francese ha modificato anche il dialetto.

 

Arriviamo all’hoi nostrano

Ma come la mettiamo con HOC ILLE, langue d’oil? Qui le cose potrebbero complicarsi perché è indubbio un qualche legame fra oil e oui. Non la faccio lunga, ne scriverò in seguito se mi sarà consentito, ma pensate a quel piccolo AOI che conclude in modo a tutt’oggi inesplicato le strofe delle Chanson. Lo hanno forse portato a Parigi quei Franchi nostrani che prima dei marchigiani e dei bolognesi d’oggi dicevano HOI! ad ogni piè sospinto? Come saluto, richiesta di attenzione, affermazione concorde o a conclusione di un ragionamento. Quelli che parlavano roman, quelli che parlavano la langue dl’aoi!

01 dicembre 2016

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