Or rivolge reclamo il sottoscritto
all’Insigne e gentile Podestà:
tre tavole di terra tengo a fitto
e tre altre ne ho di proprietà.
Come vuole ch’io possa star zitto
se non lo sbaglio l’imbroglio ci sta.
La tassa di famiglia voglio dire,
che son troppe per me ventidue lire.
Come che gli altri, voglio contribuire
in proporzione della possidenza;
non faccia uno goder, l’altro patire,
ma con giustizia e senza preferenza.
Che c’è parzialità posso asserire,
e lo dico e lo ridico con coscienza:
se lo sbaglio non c’è, l’imbroglio è grosso,
ventidue lire io pagar non posso.
I tafani e le mosche vanno addosso
alla bestia più debole e più fiacca
per succhiarle il sangue a più non posso,
che non li può scacciar per quant’è stracca;
dove è rotta la pelle scopre l’osso,
ognuno nelle ciglie gli si attacca.
Vò portare in tal caso il paragone:
così vuol far con me la commissione.
Se ognun pagasse, come a me s’impone,
cinque lire per tavola a un dipresso,
il Municipio mezzo milione
incasserebbe, e non è poco adesso.
Non mi sembra che sia a proporzione.
Per l’appunto a rapporto mi son messo,
ma dice un proverbio chiaro e naturale:
contro la forza la ragion non vale.
A me tutti gli anni nella Capitale
mi tocca andar, per guadagnarmi il pane;
non vado a passeggiar per Quirinale,
ma a lavorar nelle campagne insane.
Dove cantano i grilli e le cicale,
lì la malaria innesta le terzane;
spesso torniamo qui febbricitanti,
a guisa di cadaveri ambulanti.
Che dobbiamo pagare tutti quanti,
questo l’intende pure un idiota:
poveri, ricchi, istruiti, ignoranti,
tutti dobbiamo dar la nostra quota.
Il Comune di buffi ce n’ha tanti,
sento dir che la borsa è sempre vuota;
peggio sto io che spesso la mia panza
litiga col ministro di finanza.
Ci vuole più equità e meno pietanza,
un poco di criterio umanitario,
o per dir meglio, un po’ di fratellanza,
e non imporre a chi barca il lunario.
Io mi rivolgo con questa speranza,
che vorrà dire al signor Segretario
che gravosa è la tassa che impone
sulla mia poca roba in proporzione.
01 febbraio 2017