Erano proprio… matti nel manicomio di Macerata?

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Può sembrare strano ma agli inizi degli anni ‘60, a Macerata, il manicomio ospitava centinaia di ospiti.Alcuni erano nel padiglione “Lombroso”: furiosi e assolutamente inavvicinabili, altri vivevano nelle loro celle senza poter mai uscire, curati e controllati. Altri ancora, alcune decine, alternavano fasi discrete, quasi normali, a crisi acute; c’erano anche quelli “fissati” su di un oggetto, in mancanza del quale si agitavano. Era per questi ultimi che ci recavamo in manicomio per fare spettacolo e farli ballare e divertire. Stavamo con loro sotto lo sguardo vigile del personale addetto, altamente qualificato e straordinariamente umano. Tanto per spiegare… un giorno stavo conversando con un ricoverato quando due infermieri si sono avvicinati e lo hanno portato via, per cui ho domandato: “Cosa succede?” Mi hanno risposto: “Aveva gli occhi dilatati e le mani che fremevano più del solito, segno che stava per avere una crisi e che sarebbe stato pericoloso per sé e per gli altri, per cui siamo intervenuti. Ora un medico si sta prendendo cura di lui”. Uno dei personaggi più conosciuti (amava stare vicino alla rete di recinzione e conversava con chiunque passava di li) era un uomo di circa 40 anni che portava al collo, sempre, una cravatta rossa. Chi lo conosceva gli diceva subito: “Ma che bella cravatta che hai!” e lui, con un certo orgoglio, traeva dalle tasche altre 12 cravatte rosse e, appendendole alla rete, ne faceva bella mostra, per poi riporle accuratamente ripiegate appena ricevuti i complimenti, in attesa di poter di nuovo esibire il suo capitale. Quando aveva le sue cravatte il suo comportamento era normale, non dava in escandescenze e non creava alcun problema; ma se uno dei ricoverati gli “fregava” una delle cravatte allora si scatenava… “l’ira di Dio”! Un altro, anche questo sulla quarantina,  aveva la fissa della borsa da donna, quando ne teneva una sotto braccio stava tranquillo e sereno, altrimenti… Allora le infermiere gli regalavano le loro borse passate di moda o non più utilizzabili e lui, felice, faceva il giro di tutta la zona per mostrarle, per poi riporle con cura nell’armadio e usarle al momento più opportuno. Nei giorni di bel tempo tutti passeggiavano per i viali e i giardini del manicomio sotto l’occhio vigile del personale. Così era facile incontrare un simpatico ometto, sui sessanta, che aveva in mano una scatola vuota di fiammiferi, di quelle grosse. Si avvicinava e sorridendo diceva: “Se me dai ‘na sigaretta la metto dentro a ‘sta scatoletta!” e facendo  scorrere la parte interna apriva la scatola. Era ovvio che la richiesta veniva assecondata… allora lui chiudeva la scatoletta e si allontanava con stampato sul volto un sorriso beato. Cosa faceva con le sigarette non era dato a sapere, dato che nessuno lo aveva mai visto fumare. Recitavamo per loro “Comme lu sole”, una commedia dialettale di Dante Cecchi nella quale interpretavo Filomè, un innamorato deluso. Nella scena in cui mi preparavo a chiedere la mano dell’innamorata, che però amava un altro, avevo in mano un grosso ciauscolo e dicevo: “Le vorrei regalare questo ciauscolo ma come faccio a metterle su le ma’ un salame?” Nei teatri la battuta generava ilarità, al manicomio ci fu un attimo di silenzio finché una voce femminile disse: “Oh, ma quissu ha ditto ‘na cosa zozza!”, subito dopo partì la risata. Un episodio mi è rimasto molto impresso. Due ospiti sedevano su una panchina e si davano spinte perché ognuno affermava che la panchina era sua. Li osservavamo, insieme con gl’infermieri, gustando la simpatica scenetta, priva di pericolo. Uno diceva che la panchina era il suo terreno e non la poteva coltivare perché ci stava seduto l’altro. L’antagonista ne reclamava il possesso perché ci voleva aprire “u’ spaccittu” e cercava di allestire la vetrina con piccoli oggetti trovati in giro. La disputa andò avanti per un po’ e si alzarono i toni, uscì qualche parolaccia senza alcuna degenerazione a vie di fatto. Uno dei due mollò e prima di allontanarsi urlò all’altro, con convinzione e serietà: “Vado via! E poi sai che io con te non ci parlo… perché sei matto!” Questa la risposta data con sussiego: “E gghjà… perché tu stai ricoveratu qui dentro per curatte la tosce!” La prima volta che entrai nel manicomio ero un po’ insicuro: balli, canti, animazioni e giochi. Poi, prima di andare via, mi si avvicinò una donna con i capelli grigi, mi appoggiò la testa sul petto e mi disse con timidezza e affetto: “Grazie tante! E quanno torni a facce divertì’ ‘n’antra orda?” mi lasciò con un sorriso e una carezza. Ebbene, posso affermare con certezza assoluta, che di tutti i premi ricevuti in 50 anni di carriera quello è stato sicuramente il più prezioso. Una frase semplice e sentita mi ha fatto capire che per me era un dovere mettere a disposizione di quanti soffrono il talento che Dio mi aveva dato.

04 aprile 2017

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