La lastra marmorea di Cotta: Spes et Fortuna

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Una frase, rinvenuta originariamente lungo la via Appia e denominata “lastra marmorea di Cotta” è stata poi poi riprodotta sul frontone di Palazzo De Angelis a San Marco di Castellabate  (Salerno).

“Inveni portum. Spes et Fortuna valete, sat me lusistis: ludite nunc alios!”

Ho trovato il porto (l’approdo). Speranza e Fortuna (sorte) addio, mi avete ingannato abbastanza: ora ingannate altri.

 

Questa frase mi ha catapultata indietro nei secoli e, come sempre, mi ha fatto riflettere su quanto i legami delle nostre radici con i nostri avi siano così presenti e vicini, poiché desideriamo e lottiamo per gli stessi ideali! Quell’“Inveni portum. Spes et fortuna…” contiene ed esprime tutta la rassegnata e profonda disperazione di un uomo, come di ogni essere umano, che giunga in “quel porto” che, invece di essere l’epilogo finale del successo per il coronamento e il raggiungimento della “Fortuna”, o meglio sorte (tranquillità e potere finanziario), dopo averla cercata con “spes” per una intera vita, si ritrova in quel porto… a mani vuote… dopo essere stato ingannato dalla “spes” e dalla “fortuna”. Quel porto sarà solo un desolato rifugio, ove trascorrere gli ultimi giorni della propria vita, anche amaramente! Se hai felicità e fortuna, perché il tuo sperare non è stato ingannato, allora puoi vivere tranquillo, anche quando il mondo ti ringhia addosso! Per Seneca la “Fortuna” non è un ostacolo per raggiungere, attraverso la “Speranza”, la propria felicità. Infatti questa non ha confini, non soffre limiti, non trova ostacoli. L’arte divinatoria aruspice etrusca, poi diffusa anche tra i greci e i romani, non crede più negli dei ma esperimenta sulle sue ferite sanguinanti la potenza e prepotenza della forza cosmica, universale, che si abbatte sugli eventi e sulla storia. Dante rappresenta questa divinazione aruspice come una intelligenza angelica che amministra e guida le cose umane. Macchiavelli, con una metafora dal sapore popolaresco, la paragona a un rovinoso fiume, aggiungendo: “Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo; perché la fortuna è donna, et è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano. E però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano.” Tornando a Seneca, questi espone un’altra considerazione della “Felicità”. “Il saggio non può perdere nulla; tutto ha riposto in sé, nulla affida alla fortuna, ha i suoi beni al sicuro, appagato della virtù”. La Dea Fortuna può strappare all’individuo “saggio” le sue cose, le sue sostanze, i suoi averi e ricchezze, ma non la virtù, che è insita nella sua natura e che si identifica con lui stesso! Seneca quindi paragona l’uomo saggio, che la virtù ha reso perfetto e felice “a uno scoglio battuto dai flutti del mare in tempesta, che lo flagellano da ogni parte senza riuscire a logorarlo”. L’uomo di Seneca, arroccato all’oggi, sa difendersi anche dal tempo e dalla fuga incessante degli anni, annullandoli nella sua coscienza. Proprio  perché  chiuso  nella  sua virtù di perfezione, sottratto al flusso delle cose esterne e della fortuna, sente che “non c’è alcuna differenza tra un tempo lungo e uno breve”. L’uomo non è solo, ma è parte integrante del cosmo e ama il proprio destino, quell’“amor fati”, di cui Seneca parla spesso nelle sue opere. Plutarco definisce con la seguente frase ciò che pensa della Dea Fortuna: “Fortuna e Malvagità gareggiano per rendere infelice la vita umana”. Interviene ancora Seneca, dicendo che è da reputarsi fortunato e felice colui che coltiva l’onestà e si contenta della virtù. Quali sensazioni e riverberar di pensieri ha saputo far scaturire dall’anima questa epigrafe, giunta a noi da tempi lontani! In realtà essa è adattabile a ciascuno di noi, essa è la sintesi di ciò che tutti vorremmo, o magari non vorremmo, dal destino della nostra vita!

Mi ritornano ora in mente i versi leopardiani (A Silvia):

O natura, o natura, / Perché non rendi poi / Quel che prometti allor? / Perchè di tanto / inganni i figli tuoi?”.

Anche Leopardi parla di inganno e la parola “natura” può sottintendere appunto la speranza delusa (perché non dai ciò che prometti?). Perché la “Fortuna” e la “Felicità” attese non si sono manifestate? Possiamo quindi concludere sempre citando Leopardi con l’Infinito:

E questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.”

Questo impedimento di un qualcosa a non poter vedere oltre… come un occaso, un inganno, che non ti consenta di vivere ancora! Tante citazioni, forse troppe! Perdonatemi! Erano necessarie per creare una empatia tra l’epigrafe, i saggi del passato e noi! “Inveni Portum…”.

Fulvia Foti

10 dicembre 2017

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