“Il rosso fiore della violenza” – XLII puntata

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Il Commissario rammentò il consiglio della giornalista bionda e cacciò un sospiro rumoroso: magari fosse stato possibile rinviarla quella dannatissima manifestazione! Ordinò alle varie squadre di stare all’erta.

 

Bombe molotov

Nello stesso istante alcune bombe molotov scoppiarono con alte fiamme dal lato opposto: una camionetta della Celere andò a fuoco. La folla, urlando di terrore, arretrò schiacciando gli agenti contro i muri del palazzo. Essi non ebbero la benché minima possibilità di reagire. Giovani con passamontagna a strisce bianche e rosse e con il tascapane a tracolla, stringendo bombe molotov nelle mani, urlavano alla folla di allontanarsi, intanto che prendevano di mira altre camionette. L’oratore dal palco invitava inutilmente a mantenere la calma e a isolare i provocatori. Alberto aspettava con malcelata impazienza l’arrivo di Angela; malediceva la sua imprudenza e la sua leggerezza d’averle affidato un compito così delicato. Promise a se stesso che in futuro non si sarebbe mai più lasciato influenzare dai sentimenti, se sentimenti potevano chiamarsi i suoi.

 

Arriva Angela

Girava lo sguardo inquieto in ogni direzione, nella speranza di scorgervi la figura della sua staffetta. Di fronte a lui, alla distanza di un centinaio di metri, sostava la pattuglia di cui facevano parte Mario e Michele. Finalmente Alberto vide spuntare la sagoma di Angela tra la folla. Egli le corse incontro e appena l’ebbe a tiro le mollò un ceffone. “Porca puttana d’una borghese, dove cazzo sei stata finora? Ti giuro che questa volta te la farò pagare!” – “Che cosa vuoi da me? È colpa mia se tu non hai valutato la possibilità che qualcuno restasse intrappolato in questo casino?” E tacque della telefonata al padre per timore di una sua reazione ancora più violenta.

 

La P 38 spara

Egli nel frattempo cercava spasmodicamente di aprire il tascapane per prendere la sua P.38. La scena non era sfuggita all’attenzione di Mario e di Michele che stavano guardando proprio in quella direzione. “Porca miseria… quello sta estraendo una pistola!” Urlò Michele che d’istinto cercò di estrarre la sua. “Non fare il pazzo, Michele questo non è un film western, qui succede un macello se spari!” E così dicendo gli si parò davanti per coprirgli la mira. Nello stesso istante Alberto, accortosi delle intenzioni dell’allievo, strinse con tutte e due le mani il calcio della sua P.38 e, piegate le ginocchia, per attutire il rinculo dell’arma, fece fuoco ripetutamente.

 

Mario colpito a morte

Mario, centrato in pieno, crollò a terra senza un gemito. Michele vide il suo viso atteggiarsi a una smorfia di dolorosa meraviglia e lentamente, tanto lentamente da provare la sensazione che il tempo si fosse fermato, cadde a terra. Egli rimase interdetto e il suo gesto di estrarre la pistola restò incompiuto; guardò nella direzione dello sparatore e intravide appena la sua sagoma scomparire tra la folla, trascinandosi dietro una ragazza. Il brigadiere comandante del gruppo, resosi conto dell’accaduto, ordinò di sparare gas lacrimogeni tra la folla.

 

Caos nella piazza

Nel frattempo la piazza andava svuotandosi tra urla di terrore, svenimenti, imprecazioni e il sangue dei feriti era più rosso del rosso delle bandiere e degli striscioni che giacevano per terra come inutili stracci. Le camionette della Celere urlavano la loro rabbia con sirene stridule e lamentose.

Le nubi dei gas lacrimogeni celavano a tratti la visuale di larghe fette della piazza da cui provenivano urla e boati delle molotov che scoppiavano a casaccio. La scena aveva un’aura di bolgia dantesca, ma purtroppo non era poesia, ma cruda, tragica realtà d’un mondo che stava anticipando, qui sulla terra, il dramma dell’inferno.

 

Michele piange l’amico

Michele, inginocchiato vicino al corpo esanime del suo amico, gli accarezzava il viso e con gli occhi pieni di lacrime fissava il vuoto. Un altro collega, armato di mitra, gli stava vicino in un muto desiderio di fare la guardia a un misero corpo senza vita il quale, pochi minuti prima, palpitava di meraviglia per la ferocia dei propri simili che, senza alcuna preoccupazione per l’incolumità di tanti innocenti, avevano scatenato una guerriglia crudele. Poi calò un silenzio totale come una spessa cappa di piombo, un silenzio che fasciava tutta la piazza la quale assunse la forma d’una gigantesca tomba, la tomba d’un eroe senza macchia e con tanta paura per quei suoi fratelli, avvelenati dall’odio e dalla vendetta.

 

“E ora che facciamo?”

Il Questore guardando il caduto, inutilmente cercava d’affogare nelle pieghe più fonde della sua coscienza il rimorso che la morte di quel ragazzo fosse purtroppo anche colpa sua. Il commissario Sirtori era pallido e sudato e ogni tanto, quasi fosse incredulo d’essere testimone di quell’accadimento, girava lo sguardo sulla scena di quell’ormai vuoto teatro delle umane contraddizioni, convinto che quella giornata di lotta e di lutto, era un chiaro successo del G.L.P. e dei suoi invisibili e inafferrabili terroristi. Egli sperò d’uscire magicamente da quel copione e da quel ruolo che il destino gli aveva imposto per fuggire il più lontano possibile. Ma la frase del Questore:”Ed ora che facciamo?” lo inchiodò alla realtà inalterabile di quel tragico malessere della moderna società del benessere.                                 

continua

3 gennaio 2018

 

 

 

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