Nell’immediato periodo del dopo guerra non credo di aver mai visto, nella zona di via Piave, lo slancio svettante di una gru contro lo sfumato panorama dei Sibillini. Un paio di impastatrici meccaniche forse, un montacarichi elettrico, alcune carriole costituivano il cantiere che di primo mattino si animava con l’arrivo degli operai.
Pala, muscoli e passamano
Toccava loro lavorare di pala e di badile per sistemare camionate di terra o di “ciuca”, spegne la carge, ‘rrempì “gamelle”, issarle verso il tetto a forza di muscoli, ammucchiare i mattoni con il secolare sistema del passamano. Eppure le “case de Lattà” fiorivano, crescevano, si materializzavano dall’oggi al domani in zone prima desolate e spoglie, nella campagna periferica, frequentata di giorno da manipoli di monelli scatenati e di sera da coppiette in cerca di una ombra compiacente.
Cosa c’era prima…
In via Piave, appunto, le uniche costruzioni esistenti erano l’edificio che fu già la “Casa della Madre e del Fanciullo” di essenziale architettura fascista; un’altra costruzione dallo stralunato intonaco esterno color fucsia e alcune villette a lato del breve tratto di salita che si inerpica verso l’Istituto della Suore di San Giuseppe. Null’altro. Intorno tanto verde, tanti profumi e odori, fin sotto la cosiddetta “gabbetta” dei Salesiani.
Palazzine fragili all’apparenza
E in via Piave, il Lattanzi con il suo piccolo esercito di salariati, “prime cucchiare”, muratori, manovali (in gergo “manuali”), carpentieri, tutti in grado di fare di tutto, procedeva con una velocità insolita per quei tempi a erigere palazzine e condomini, all’apparenza fragili e instabili, ma che a tutt’oggi, seppure con tetti e maquillage rifatti o restaurati, resistono alle ingiurie del tempo. Agli ordini perentori del dittatore faticavano i vari Cavallero, Fifo, Mario de Carassà, Morittu, Nello, Peppe, che eseguivano i compiti di loro pertinenza, senza la benché minima rimostranza, senza appellarsi a regole di buona creanza (e quando mai!) o a rivendicazioni di carattere sindacale.
Lavoro fino a notte fonda
Lavoravano in silenzio o mugugnando sottovoce, quando il capo non poteva sentirli, dalle 6 del mattino finanche a notte fonda, sotto le luci di un riflettore o dei fari di un camio-rimorchio da scaricare. Lattanzi con il suo vocione da “patrò”, controllava tutto e tutti, gesticolando, ululando come un mastino inferocito, assegnava compiti, disponeva modifiche, partecipava fattivamente all’opera. Dietro richiesta del cliente un canterto veniva spostato di un mezzo metro dalla primitiva posizione per allargare la cubatura del cucinotto.
I muri “spostati”
E dico “spostato”, non demolito e rifatto, come logica vorrebbe. Gli operai si limitavano a scartare a colpi di scalpello la parete designata intorno al suo perimetro, per collocarla poi in blocco alla distanza desiderata. Virgì gestiva questo suo piccolo impero edilizio con piglio autoritario e una prepotenza a suo modo accattivante. Un modo di fare sbrigativo, efficiente, senza fronzoli, con pochi scrupoli e tanta voglia di lavorare.
“Io co’ le cause ce campo…”
A chi osava minacciarlo con il ricorso alle vie legali per un qualsiasi impegno non mantenuto (e nella miriade di cose da seguire, poteva anche succedere…) il costruttore, con una strafottente alzata di spalle e il più bel sorriso che illuminava il suo volto da gentiluomo del Quattrocento, replicava: “E chi se ne freca… Io co’ le cause ce campo!”. Anche questo era un modo di affrontare la vita, con una enorme fiducia in se stesso, e una notevole dose di incoscienza e azzardo. Tutte qualità che, messe insieme, gli consentirono di divenire, in pochissimo tempo, uno degli imprenditori più produttivi di Macerata e provincia.
Le malelingue
Le solite malelingue lo accusavano di scarsa meticolosità nella messa a punto dei lavori. Dicevano che riciclasse troppo spesso materiali di scarto recuperati chissà dove, che gl’infissi non fossero proprio di prima mano; che il cemento non fosse mai troppo “armato” per la sovrabbondante quantità di breccia nell’impasto. Certo è che veniva fatto un uso smodato di foratelle persino nelle strutture portanti del fabbricato, tant’è che se ai piani superiori cadeva un bottone, a pianterreno se ne sentiva l’eco. Lattà andava avanti imperterrito, con serenità e apparente leggerezza d’animo.
Media di una casa al mese
La media operativa era di un piano a settimana, tra le urla, le pittoresche imprecazioni, i contatti e i colloqui dai toni più o meno diplomatici e contenuti. In definitiva il bilancio era di una casa al mese. Dopo i disastri della seconda Guerra Mondiale di case ce n’erano davvero poche e bisogna riconoscere che il sunnominato, agli inizi degli anni cinquanta, da modesto capomastro, stava diventando un pioniere nel settore della “ricostruzione”, anche se gli correva l’esigenza di edificare a tempo di record.
Il fretello, geometra e mite
Gli era di valido aiuto e, in un certo qual modo, serviva a bilanciare i suoi modi presupponenti e sgarbati, un fratello geometra, mite e silenzioso il quale, se la memoria non mi inganna perì, ancor giovane, a seguito di un incidente d’auto. La famiglia Lattanzi occupava un appartamento in uno degli stabili di via Piave costruito tra i primi, un fabbricato a ferro di cavallo (subito appresso alla citata sede della “Maternità”) nella cui parte centrale era ubicato il garage della corriera di linea Macerata-Fermo della ditta Cardinali.
Il magazzeno nel rifugio antiaereo
Il magazzeno dell’impresa era collocato in quello che era stato uno dei rifugi antiaerei della città, una galleria che si immergeva nelle viscere della terra sotto viale Trieste e spesso con gli amici ci si avventurava in lunghe esplorazioni del sottosuolo, divenuto luogo di scherzi e segreti conciliaboli. Venendo dalla relativa tranquillità di paese, subivo adesso il fascino di questo ambiente per me del tutto nuovo.
Quando ci siamo accasati
Ci trovammo tra i primi a occupare l’appartamento a noi destinato e, agli inizi, non fu come un vero “accasarsi”. Era una lenta progressiva presa di possesso di una realtà ancora indefinita, nella quale tutto aveva un pericoloso aspetto di provvisorietà, dai vetri delle finestre contrassegnati da vistose pennellate di gesso a forma di “zeta” a indicarne la presenza, all’acqua che usciva dai rubinetti catarrosa e di un colore rossastro, alle scale ancora prive di gradini e per ringhiera quattro assi di legno inchiodati.
Crescere con la casa
Crescemmo insieme con la casa, la vedemmo materializzarsi intorno a noi, come quegli animali che, stecco dopo stecco, zolla sopra zolla, pietra su pietra, provvedono a crearsi con fatica e sacrificio un rifugio in cui credere e sperare. Avevamo in dotazione un “bagno” di appena mezzo metro di larghezza con un finestrino che serviva a malapena a smaltire gli… effluvi più resistenti. Era collocato a ridosso della cucina!
Le docce pubbliche
Per la pulizia integrale dovevo recarmi una volta alla settimana ai bagni pubblici, siti sotto il loggiato del Palazzo degli Studi di fronte all’ingresso della Banca d’Italia. Il costo della doccia variava a seconda che si dovesse far uso di un accappatoio, di un lenzuolo di supplemento o della saponetta profumata.
La mia cameretta
Avevamo ricavato la mia stanza da letto dall’ingresso di casa. Per delimitare lo spazio, si era pensato a un enorme armadio, di quelli d’epoca a due ante, portato su dal paese, che fungeva da parete divisoria; sulla faccia posteriore avevamo incollato alcuni rotoli di carta da parati, con sopra uno specchio e alcuni quadretti decorativi.
I rumori e il nuovo linguaggio
Di quel periodo mi restano nella mente una infinità di strane sensazioni legate al fatto intrinseco della “costruzione” e della erezione di un muro, della messa a livello di un solaio, della sporcizia, del sudore, della polvere, il tutto necessariamente accompagnato e arricchito da voci stonate che cantano un ritornello di Sanremo, da grida di incitamento, da epiteti offensivi, in un dialetto stretto, che a volte si trasforma in un suono semplificato ed essenziale; schiocchi secchi di ponteggi metallici, l’ansito del martello pneumatico, il tonfo sordo della terra smossa, la richiesta degli attrezzi specifici o l’elencazione dei materiali di uso quotidiano, in un linguaggio per me intrigante e nuovo: lu piccò, la pala, la cucchiara, le gamelle, lu manuale, lu filu a piommo, la livella, la càrgia, la martillina, lu mezzumurale, l’architrau, li corvelli… Lattà che urla: “Fifoo… Fifoooo, ‘ndò madonna si ghjto a finì?…” o Morittu che incita il cavallo bolso attaccato a una carretta stracarica di tegole o di tavoloni da usare per le impalcature: “Arrète, Pacchiarò, sta arrète…”.
Gli attori di una commedia all’italiana
E poi tutti gli attori di questa commedia all’italiana, i quali, insieme con Virgì Lattanzi, protagonista indiscusso – con al seguito la moglie rotonda e rubizza come una matrioska e un’unica figlia, gazzella fresca e scattante – si muovono sullo sfondo approssimativo e disadorno da film neorealista. Fra i tanti il geometra Cirilli, che mi accompagnò nel magico mondo della musica lirica permettendomi di accedere ai suoi 78 giri di intere opere del repertorio italiano… e il maggiore Bissignani, ufficiale in congedo, piccolo di statura, ottimo disegnatore, cineasta, amico intimo di Bruno da Osimo, del quale possedeva incisioni rievocative e arcane. E la zia Ida, di famiglia nobilissima che, pur di sostenere agli studi i due figli gemelli, si era adattata a vivere in un miniappartamento all’ultimo piano. E il “segnor Conti”, il quale, rientrato in patria dopo anni di permanenza in Argentina, se ne andava in giro per casa avvolto in una rutilante vestaglia di velluto a disegni arabescati, con in mano l’eterna fumante tazza metallica di matè e pipetta. E la signora Mariani, con l’appartamento sempre rumoroso per la costante presenza dei nipoti, per i quali, da perfetta nonna, preparava torte e focacce di ogni genere, spandendo effluvi e profumi lungo le stretta scale di accesso…
Scampoli di un’epoca remota
Piccole cose, ingenui scampoli di un’epoca remota, importantissimi per la mia crescita e formazione, graffiati nel consunto e screpolato intonaco della memoria e marcati a fondo da una forzata sosta di cinque mesi in ospedale, per una malattia improvvisa e grave che non dava troppe speranze. Nel corso della degenza mi trovai come costretto a rivisitare fatti e persone incontrati nel cammino fino allora percorso. E a riflettere su tanti particolari all’apparenza sciocchi e insignificanti che i più neppure si degnano di raccogliere e gettano nella pattumiera del passato.
18 marzo 2018


