Appunti intorno alla lingua dialettale del maceratese

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Quello che non si è modificato per secoli, da 40 anni a questa parte sta cambiando in modo rapidissimo, sia nei rapporti sociali, come nel mondo del lavoro, nella tecnologia e nell’economia. Non poteva non accadere la stessa cosa nel linguaggio.

 

Avviato un cambiamento radicale

Tanti termini che abbiamo ascoltato da bambini noi, di una certa età, ancora ne conserviamo il significato (e non sempre) ma ai nostri figli suonano sconosciuti, molte parole sono ormai desuete, a volte incomprensibili, anche a noi. Era un linguaggio legato alla terra, ad attività economiche casalinghe e paesane, persone contente del poco che avevano e che apprezzavano grandemente. Oggi, vuoi per la scuola diffusa e di più livelli, vuoi per i mass media, per la televisione, per il web e i social il linguaggio sta cambiando radicalmente, questa promiscuità sta distruggendo il dialetto facendo largo a un nuovo modo di comunicare: sintesi e scarsità grammaticale, suoni scritti più a orecchio che secondo le regole, si va molto per immagini e parole precostituite.

 

Cerimoniale amoroso

Torniamo al dialetto, quello maceratese. Un tempo “fare all’amore” era un casto “descóre” (discorrere, parlarsi) quasi una amabile conversazione settimanale dopo che “lu toccamà” (solenne stretta di mano tra pretendente e familiari della sposa promessa) aveva certificato il legame, al quale si conferiva notorietà con la “combàrsa” (pubblica uscita dei fidanzati nei giorni di festa). Un cerimoniale quasi del tutto dimenticato, come è dimenticata la consuetudine di regalare alla sposa, prima della “cacciata” (uscita dalla casa paterna) la “conòcchja”, strumento simbolo di femminilità, a prerogativa della donna di casa, oggi sconosciuto, al pari di altri strumenti appartenenti alla filatura e alla tessitura: lu fusu, lu filaréllu, la nnaspa, lu depanató, lu telà, la naétta, la zéppa, li vucinitti. Vale a dire: muoiono le parole perché cambia lo stile di vita; non si tessono più abiti e biancheria in casa ma si acquistano belli e fatti. Belli non tanto pensando agli odierni jeans stracciati ma, forse, questo è un nostro modo di vedere, antiquato.

 

Abbigliamento

Alcuni capi di abbigliamento nemmeno si usano più: l’azzaró o guazzaró (camiciotto rustico da lavoro), lu guarnéllu (sottana a pieghe di stoffa tessuta a mano), lu caffu (calzoni attillati di panno o di velluto), e tutta la serie dei copricapo femminili: lu screllatu, lu littérellu, la sguffia, la vettarèlla, lu sciallittu. Poi c’erano le calzature fatte in casa o nella bottega artigianale: li ciocchi, le ciocchette, le chjòchjere, li trunghitti; né mancavano gli ornamenti femminili: li circhji, le navicèlle, li pennèndi, le vùccole, li coràji.

 

Superstizioni

Dal modo di relazionarsi nel fidanzamento e dal modo di vestire passiamo alle credenze e alle pratiche superstiziose. Qui il nuovo modo di pensare sta facendo, o per meglio dire, ha fatto, rapida giustizia di tutta la terminologia che a queste si riferisce. Spiriti maligni, chi ricorda come venivano definiti? Lo cattìo, li mazzamorélli, li martorélli, la paùra (non come la intendiamo noi oggi ma come entità solitaria e maligna).

 

Stregoneria

Invece nel campo della stregoneria, della taumaturgia, della divinazione le parole sono un po’ più dure a morire per il plurisecolare retaggio e ancora se ne riconosce il significato: fattura (malìa), fattucchjara (fattucchiera), stròlleca (indovina, astrologa se svolge la sua attività attraverso l’osservazione degli astri), pianéta (sorte, destino), poi c’è lu livru der commanno (il libro del comando il cui possesso conferisce poteri soprannaturali ma porta con sé anche la dannazione dell’anima), c’è la virtù (potere magico spesso riservato alle donne che hanno cuppito, cioè che hanno avuto un parto gemellare), c’è lo segnà (compiere pratiche magiche per guarire malattie e sciogliere incantesimi), e ci sono gli amuleti come la pietra aquilina o pietra soneréccia (tenuta indosso dalla gestante per scongiurare l’aborto).

 

Tabù

Sono altresì scomparsi, o quasi, i tabù linguistici e gli eufemismi connessi ai pregiudizi popolari: lu nnimicu o lu momò (il demonio), la porcarìa (la grandine), la toccatella (il colpo apoplettico, detto anche j’ha pijato ‘n górbu quando è particolarmente forte), lo vrutto male (l’epilessia). Resiste ancora nel maceratese un’antichissima formula di scongiuro: no’ gne nòcia (non gli noccia o non le noccia, non porti male).

 

Ritualità pagane

Vanno anche scomparendo alcune ritualità pagane inglobate successivamente dal cristianesimo: ll’acqua de san Gnoànni, ll’acqua de la Madonna, le Canestrelle, li faóri o focaracci (fuochi accesi nella notte de la vinuta, la traslazione della Santa Casa della Vergine lauretana) e li cutumazzi, la capriole dei bimbi al primo scampanio del Sabato Santo.

 

Scuola, fattore di cambiamento

Un importantissimo fattore di cambiamento nel linguaggio è arrivato dalla frequentazione della scuola aperta a tutti, specialmente quella fino a poco tempo fa chiamata scuola elementare, in quanto insegnava i primi elementi del parlare, dello scrivere e del far di conto. I ragazzi introducono nell’ambiente domestico parole nuove, destinate a sostituire quelle vecchie usate dai nonni e dai genitori. La scassìna o la scangillìna diventa gomma; aritmetica e matematica non sono più li nùmmiri; c’è il sillabario e non la sandacróce; lu zinalittu diventa grembiulino; la papèlla si trasforma in farfalla; la zambana diventa zanzara; la chioccia e i pulcini non sono più la viòcca e li ppurginélli. Fino ad allora i vecchi avevano preferito pallina a lampadina, lucillina a petrolio, pundura a iniezione, vullinu a francobollo; sono i ragazzi ad accettare le nuove parole, magari adattandole, per l’uso parlato casalingo, alla fonetica e alla morfologia del dialetto.

 

Neologismi dialettali

Così ci troviamo ad avere dei neologismi dialettali: lambadina o lampidina, petròjo, ignizió, frangovóllu. Questo i giovani, perché, invece, le persone più vecchie, di fronte a nuovi termini ritenuti difficili o incompatibili foneticamente con le loro abitudini, avevano preferito sostituirli con parole conosciute. A esempio fotografia, parola portata dalla nuova tecnologia, veniva sostituita con rzumiju, retrattu, viduta; fiammifero diventava pròsperu, furminande; sonnifero era la ndurmindìna. Per esprimere un termine usavano anche giri di parole, intere frasi: circo equestre era li jóchi de cavalli; il contatore diventava la mmaghenétta pé misurà la luce lettreca.

 

Storpiature

Ci sono poi le storpiature quando alle nuove parole venivano accostate impossibili terminologie che, però, ce dicìa (si assomigliavano): ragion per cui le esequie diventavano le sècole (je canda le sècole), l’almanacco si trasformava in monarca, l’estirpatore era lu strippatore (da trippa), la stadera diveniva ll’astatèrra (un mix da asta e terra), ricamo diveniva riccamu (da ricco), il bicarbonato era detto vingarbonato (connesso a vino), la tintura di iodio si trasformava in tindura d’òjo (da olio) e, a Macerata, chi andava a scuola o a giocare dai Salesiani jàva jó li Filiziani o, anche come ulteriore e successiva trasformazione, da li Siliziani.

 

Termini più esatti

Grazie alla scuola il ragazzo di campagna diventa un piccolo òmu de léttora (uomo di lettere, sa leggere e scrivere una corrispondenza, una lettera), ed è sempre più restìo a usare le vecchie terminologie, troppo difformi da ciò che gli viene insegnato a scuola. Quindi lu carru mattu era l’Orsa Maggiore, l’arcu de Noè è l’arcobaleno, strade de Roma era la via Lattea, e chiama Venere, il pianeta, al posto di ócchju de la sera, stella de la Madonna, stella vèlla, diana; le Pleiadi erano dette le gajinèlle o la purginara; le stelle del Toro erano lu gattu e la górba (il gatto e la volpe).

 

Monete e misure

Un ulteriore esempio viene dalle monete: cambia lo Stato, cambia anche il conio che, comunque, era soggetto a più cambiamenti anche dentro uno stesso Stato, basta pensare che ogni Papa, nello Stato pontificio, cambiava il soggetto impresso per cui mutava anche la terminologia. C’era lu cendè (è tornato di moda in tempi abbastanza recenti ma il suo valore è sempre rimasto minimo), lu sòrdu, la quartina, lu scutu, lu papéttu, lu pàulu, lu bajòccu o vajòccu detto anche baéccu e così di seguito. Né sono state esenti altre terminologie come quelle dei pesi e delle misure, quasi tutte non più in uso: óngia, livra, fùrculu, parmu, vracciu, passu, cannata, quartu, fojétta, bucà, cóngia, sòma, còppa, rubbiu, proénna.

 

Termine neutro

Anticamente c’era anche la delicatezza di usare un termine neutro, per indicare un luogo, per così dire, sconveniente. Infatti con la parola lòcu si indicava quello che oggi chiamiamo bagno o, alla francese, toilette. Con il tempo il generico lòcu è stato sostituito con dei termini più indicativi: cèssu (presumibilmente da ceduto, lasciato), latrina e, successivamente, con il termine di derivazione scolastica, gavinéttu. La parola schietta, esplicativa della funzione del luogo ma intesa come volgare, cacató, era possibilmente evitata.

 

Auto

Altro termine assai generico era mmàgana, che designava inizialmente qualunque tipo di meccanismo ma poi si è evoluto e settorializzato divenendo trèbbia per trebbiatrice, mmàgana da cuscì per macchina da cucire, con l’aggiunta della specializzazione, ottomòbbele per automobile.

 

Parole sconosciute

Chi conosce più il termine spalescenà? o spanneceté? o, ancora, spisurdu? Sono parole perdute che stavano per sbadigliare, sbadiglio, spilungone. Quindi, a conclusione, acquisizioni e perdita di parole non sono da ricondurre solamente alle mutate condizioni culturali ma sono da considerare pure i mutamenti della realtà oggettiva, con la scomparsa di oggetti non più in uso, di concetti non più familiari e, parimenti, la comparsa di tecnologie un tempo inesistenti e, pure, la evoluzione continua e sempre più rapida in campo socioeconomico.

27 agosto 2018

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