“Mèjo puzzà’ de vì’ che d’ójo sando!” …e altro

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“Mèjo puzzà’ de vì’ che d’ójo sando!” Così Terè de Cirilla, mia zia Teresa, sorella di mio nonno, Dumì de Cirilla, classe 1879, di qualche anno più anziano di lei, rispondeva a quelle donne che nel corso di una di quelle “cagnare” tra vicinate, sempre per motivi futili e sempre vivaci e pittoresche se non altro per gli epiteti che si scambiavano a tutta voce, le rinfacciavano un (più presunto che vero) eccessivo amore per il vino.

 

Il vino

Più spesso, troncando ogni discussione sugli effetti del vino, sentenziava: “Il vino è l’anima della persona e dà ‘nterculu all’aria”. La espressione “dà ‘nterculu” è spesso usata anche nel senso di “più importante, più utile”. Quindi il significato della frase è che il vino è più importante  dell’aria. Naturalmente si tratta di una iperbole. Si deve, tuttavia, tenere presente che all’epoca, almeno per la gente povera, che era la stragrande maggioranza, il vino era l’unica cura contro la disperazione di quelli che, oltre tutti gli altri problemi della vita quotidiana, non avevano di che vivere per sé e per la famiglia.

 

Per non dimenticare

Quante di queste antiche espressioni (modi di dire, proverbi ecc.) vivaci e colorite, frutti della nostra cultura contadina, del modo semplice e schietto di esprimersi di gente attaccata alle tradizioni e sempre con i piedi per terra, sono cadute in disuso o rischiano di essere per sempre dimenticate. Per questo vorrei affidare a “La rucola” il compito di tramandare ai posteri alcune di quelle che mi riesce di ricordare.

 

Derivazione religiosa

Inizio con un detto particolarmente conciso ed efficace: “La messa è per chi la ‘scòrda” – “la messa (cioè il discorso) è per chi l’ascolta”. Significa che se qualcuno ti fa un discorso sui vizi e sui difetti umani in generale o in riferimento a un’altra persona, stai sicuro che lo fa (anche e, forse, soprattutto) per te, che stai ascoltando. Trovo particolarmente curioso “Le sècule sé canda sópre lu mortu”. È la versione maceratese del detto “Non fasciarsi la testa prima di averla rotta” o “finché c’è vita c’è speranza”; è un invito alla speranza e all’ottimismo. Le “sècule” sono le preghiere che il prete recitava davanti al morto nei funerali. Il termine proviene evidentemente dalla frase “Per omnia saecula saeculorum”, più volte ripetuta nella suddetta liturgia. Ciò dà una idea di quanta suggestione le parole latine pronunciate dal sacerdote, specie, appunto, quelle della “Messa da mortu” suscitavano nella immaginazione popolare. La parola “Viasìlla”,  per  fare un altro esempio ancora più efficace, figurava nei vari detti popolari in riferimento alla morte (lu prète te canderà la viasìlla). È infatti la versione popolare delle parole “Dies irae dies illa” – “Giorno d’ira quel giorno” (quello del Giudizio Universale). Parole tremende, che seppure non comprese nel significato letterale, trasmettevano un vago senso di sgomento per quel misterioso ignoto di ciò che sarà di noi dopo la morte.

 

Derivazione latina

Ricordo un vecchio che cantava: “Se quanto vòjo rìde’ quanno so’ mórtu, lu prète canderà e io starò zittu”; la frase è spiritosa e ironica: è quello che ci vuole per esorcizzare la paura della morte! Sempre in materia di “latinorum” va ricordata l’espressione (purtroppo dimenticata, credo) “Te dovèndo acciòmu”, dove la parola “acciòmu” è, verosimilmente, la traduzione della frase pronunziata da Ponzio Pilato quando rinviò, dopo averlo fatto flagellare, Gesù al Sommo Sacerdote Caifa: “Ecce homo”. Così pure è da ricordare il modo di dire, non meno pittoresco degli altri, “Métte avandi le mà’ pe’ non sbàtte’ lu musu” che, a mio avviso, ha un significato analogo al detto latino “Excusatio non petita accusatio manifesta” – “Una scusa non richiesta equivale a una confessione di colpevolezza”. Per concludere il “latinorum” non so resistere alla tentazione di citare, perché è veramente curiosa (anche se non marchigiana), la frase “Su li gusti non ce se sputa”, che è la traduzione in dialetto romanesco di quella latina “De gustibus non est disputandum” – “Non si può discutere sui gusti” (evidentemente perché il gusto, specie in materia di cucina, implica un giudizio soggettivo e non oggettivo).

 

Derivazione autoritaria

Quando da ragazzi i nostri divertimenti si svolgevano fuori dal centro abitato e uno di noi aveva bisogno di fare pipì diceva, anche e soprattutto per ravvivare l’allegria collettiva quando questa rischiava di languire: “Chi non pìscia in combagnìa fa lu latru o la spia!” Superfluo dice che nessuno di noi voleva passare per ladro o per spia. In quell’epoca, se non ricordo male, era molto spesso citato il detto “Mèjo fa lu latru che la spia”. Sono espressioni evidentemente nate quando, secoli addietro, le pubbliche autorità erano considerate come un nemico per la povera gente che, tra l’altro, il più delle volte era costretta a rubare per sfamare la famiglia. Per questo fare la spia era considerato un fatto molto più riprovevole del rubare. Si diceva anche: “Chi fa la spia / non è fiju de Maria / non è fiju de Gesù / quanno  mòre  va laggiù” (cioè all’inferno).

 

Lei, lui, la coppia

Un modo di dire che, se non è caduto del tutto in disuso è sul punto di esserlo, è “Lo matto e lo vrutto non se mèdeca”. Anche perché oggi lo “vrutto” ormai “se mèdeca”, grazie ai progressi della medicina e della chirurgia estetica e “lo matto” in questo caso non va inteso nel senso letterale della parola bensì in riferimento a persona dal carattere difficile, che mal si relaziona con gli altri: dispettosa in sostanza. Il proverbio va quindi interpretato alla luce del detto “Brutta e dispettosa”. Chissà perché questa espressione me la ricordo solo al femminile, forse perché tale ingiuria così feroce esplicava tutta la sua carica velenosa se rivolta a una donna. Infatti per una donna la bellezza era tutto; un uomo brutto veniva (e viene) di solito “riabilitato” con “Però è simbaticu”. Non può essere dimenticato il proverbio “La cèrqua non po’ fa’ le merarànge”. Per comprenderne e gustarne appieno l’efficacia non vedo modo migliore che rileggere alcuni versi del sonetto Proverbi di Giuseppe Procaccini: “Te fa specie se quella è ‘na zozzona / se fa passà da pupu lu maritu / …a dilla chiara, sinza tante frange / la matre te rrecordi che facìa? / Cuscì la fija, ce lo sai per dia… / le cerque non po’ fa le merarànge!”

 

Dalla vita di tutti i giorni

Da ricordare, inoltre, vari altri modi di dire tipo: “Non tira se non còje”; come a dire non fa niente se non vede un suo tornaconto. “Chi vòle Cristu se lu prega”, chi vuole qualcosa deve conquistarsela; “Bruttu più de la fame”, “È mèjo non stuzzicà’ lu vesprà”, con la variante un po’ volgare “È mèjo non smòe lu merdà”, “Chi manegghja lo mièle se lécca li diti” (non so dire se questo proverbio ancora si usa, però nessuno può negare che è più attuale che mai, considerato quello che la gente pensa dei politici che ci rappresentano!), “Non te sàrva manco Caravani” era una minaccia: se ti metto le mani addosso finisci all’ospedale in pessime condizioni (pare che Caravani fosse un medico dell’Ospedale di Macerata), “Ha fatto lu guadàgnu de Cazzòla” nel senso che “Ha fatto un affare sbagliato”, cioè del ca… volo, anche se non escluderei che, come nel caso precedente, questo Cazzola, che faceva affari sballati, possa essere effettivamente esistito.

 

Cojonerìe…

Stò co’ li frati e zàppo l’órtu” significa “Sto per i fatti miei, non m’impiccio”: in sostanza è il motto di quelli che non fanno il male ma nemmeno alzano un dito per fare del bene. Un impiegato comunale di altri tempi diceva: “Io non spégno però non monto, me ‘ppògghjo!”. Di un ragazzo che “Una ne fa e cento ne pensa” si diceva “O tégne o còce” e, per chi non lo sapesse, è “lu callà” che tégne e còce. Sono particolarmente interessanti i modi di dire con il verbo “cojonàre” il cui significato principale è “ingannare”, “prendersi gioco di qualcuno”. Per esempio l’1 aprile si usava “cojonàre” qualcuno; però è usato pure in altri particolari modi di dire: fare “Condendu e cojonàtu” colui che ha delle pretese assurde e viene accontentato con qualche furbesco espediente, che gli da la sensazione di essere stato obbedito. Così fa “Condendu e cojonàtu” il padrone quel dipendente che attacca l’asino dietro il carretto, come vuole quello, anziché davanti. Ancora più curiosa è l’espressione “Me cojóni!”, è una esclamazione il più delle volte scherzosa: “Mi accontento di vincere un milione di euro” – “E me cojóni!” (mi prendi in giro? mi prendi per i fondelli?) pur se, in dialetto, si dovrebbe dire: “Mi prendi per… o!?” – continua  

31 agosto 2018  

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