Escursione sui detti popolari maceratesi associati a “lo magnà”

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È strano come nella nostra esistenza tante immagini si associno al problema del sostentamento, della nutrizione, de “lo magnà” insomma, come acutamente è stato da altri puntualizzato, facendo magari appello – se del caso – a lapidarie ed efficaci espressioni dialettali, che meglio individuano l’oggetto della riflessione. E quanto il concetto della necessità del cibo sia legato al quotidiano, lo dimostrano le manifestazioni del gergo popolare, di cui tenteremo una veloce analisi, per delineare, in tono affettuoso e ironico quanti si siano posti o si pongano, per pregi e difetti, alla nostra attenzione. Il richiamo alla tavola e alle materie nutritive di più largo consumo diviene quasi una costante di vita. D’altronde anche Gesù – come osservava dal pulpito un arguto parroco – ebbe spesso a compiere i suoi miracoli migliori… a tavola!

Così, con le finalità le più diverse, si è soliti definire “salame”, “sargicciottu”, “selleró” o, anche, “ciammellottu, colui che, di costituzione longilinea e di aspetto melenso, non dimostri, di primo acchitto, una eccessiva brillantezza di intelletto.

Come, d’altra parte, viene chiamato “pappamolle” o “polendina” chi non offre garanzie di grinta e autorevolezza.

Pesce lesso” è chi rimane lì impalato, con lo sguardo fisso e inespressivo, come è appunto l’occhio del pesce bollito.

Sempre nel campo della terminologia ittica “vaccalà” è colui che dimostra di non saper reagire agli stimoli di qualunque genere: “Rmanì’ comme un vaccalà…” e cioè: rimase di stucco, inebetito, senza “spiccecà parola.

In tono di rimprovero si dice: “Hi fattu un minestró’” per indicare un risultato finale composto di un’accozzaglia di cose, una disordinata raccolta di oggetti…

O anche  “Ammò imo fatto la frittata…” quando l’osservazione è indirizzata a quanti abbiano compiuto un’azione cui non sarà facile porre rimedio.

Quando qualcuno dimostra, a esempio, una estrema disinvoltura nell’assemblare cose diverse, si è soliti affermare: “Hi ‘cchiappàto su tutto, brodu e acino…”.

E così chi si accorge di non aver più risorse per risolvere un qualche problema, lo si sente esclamare, con rassegnata ostentazione: “Ormai c’è poco da fà. Sìmo ‘rrigati alla frutta!.

Che pizza!” borbottano insofferenti i ragazzi, quando devono ubbidire a sollecitazioni che a loro appaiono noiose e ripetitive.

Picció’ ripieno” è, a esempio, il tipo dal fisico un po’ traccagnotto, pieno di sé, che cerca di darsi un contegno: tacchi rialzati, petto in fuori, pancia in dentro… e cervello immerso nel vento!

Lu gallu de la Checca” è il classico dongiovanni il quale è abituato  a  gestire, dall’alto della sua… cresta, un campionario variegato di gallinelle. Spesso più con le parole, che non in base ai risultati.

Per rimanere in tema, mi sembra del tutto superfluo accennare all’uso generalizzato del termine “Pollo (o pollastro)” quando si vuol disegnare la figura di quello che si lascia facilmente “infinocchiare” dai furbi. 

E l’“oca, pennuto arcinoto a livello di cortile è in realtà creatura molto meno “oca” di quanto si pensi.

Io, prima de èsse vì’, so’ statu acitu, dicevano i vecchi  di paese, ad avvertire che non è facile ingannare chi è già passato attraverso esperienze determinanti e formative.

Quanto sì’ scroccafusu!” con significato equivalente al “ciammellottu” di cui sopra.

Ci si può abbinare anche la definizione di “lardellu” più o meno con lo stesso intento denigratorio.

Carciofu” (ancora meglio “scarciofenu”) è la persona, di preferenza di sesso femminile, che si sforza di apparire, ma che non ha né la classe, né lo stile, né tanto meno l’intelligenza per poterlo fare.

Finocchiu” va riferito a personaggi di sesso maschile, che offrono una dubbia identità genetica, o siano addirittura   passati…  all’altra  sponda.

Quando poi si vuole riconoscere il raggiungimento di una meta insperata, specie da parte di coloro che non abbiano troppe possibilità, si è soliti dire: “Dàje, dàje, jè l’hi fatta pure tu a rrigà a pà de grà’ ”. Ovvero si è realizzata la speranza di poter gustare la prelibatezza del pane di “farina 00”, dopo un’esistenza vissuta a tozzi di tritello o di granturco.

Per definire un eccesso di presenzialismo si è soliti dire: “Me pare che ssì come lu pummidoru!” –  esempio di ortaggio che, crudo o cotto, si armonizza con molte pietanze; un po’ come il prezzemolo (un ciuffittu de erbetta detto in gergo) che sta bene dappertutto.

È entrata nell’uso comune anche l’esclamazione “Ridi, ridi, che mamma ha fatto li gnocchi…” ma confesso di ignorare la origine di tale assunto.

Si potrebbe continuare all’infinito con motti, citazioni, strofette, proverbi, tutti ispirati al mondo delle vettovaglie e dintorni, ma non mi sembra questo il luogo più indicato per una trattazione con intenti didattici o esegetici. Rimando pertanto a studi più specifici e attinenti alla materia, di certo controllati o sperimentati anche nell’ambito di altre realtà culturali.

A onor del vero, capita di sentire ancor oggi, fra la gente delle nostre campagne, uno strambotto che così recita: “Chi pe’ frasche, chi per legna /  per magnà tutti se ’ngegna”, distico che ritengo di fare mio in tutta la sua pregnanza e il suo messaggio più erudito, al di là di ogni falsità o ipocrita mascheramento di intenzioni. Il mondo spirituale dunque, e la dimensione che sembrerebbe esclusivamente materiale, attraverso queste espressioni, sembrano ribadire uno stretto legame e una più stretta connessione.

Goffredo Giachini

2 aprile 2019

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