AMILCARE G. è andato in pensione dopo anni di onesto impegno, svolto in qualità di fattorino-autista della Sede. In sostanza, come spesso accade, questo maceratese verace era tenuto in considerazione più per la sua riservatezza e discrezione, che non per le specifiche capacità intellettive. Era il classico esemplare che – pur presente in carne ed ossa – dava la sensazione (forse per sedimentata deformazione professionale) di non esserci. Pronto al minimo cenno dei superiori, e sempre dopo aver assolto gli specifici compiti di sua pertinenza, Amilcare sembrava calare in uno stato di completa abulia, appena l’auto blu della Sede era fuori servizio e, per forza di cose, si trovava costretto a svolgere mansioni di normale subalterno all’interno della struttura burocratica. Tanto era paziente e remissivo in ambiente di ufficio, tanto era scorbutico ed introverso, ai limiti della tollerabilità, per quanto riguardava i rapporti interpersonali. Un antipatico, per antonomasia, con alcune ovvie eccezioni.
Autista e auto ufficiale usati per… altri usi
La sua remissività e l’atteggiamento di passiva sottomissione lo rendevano succube della volontà dei vari capi, che sapevano approfittare del mezzo dell’ufficio e del relativo conducente anche per impieghi di assoluto carattere personale. Tutto il mondo è paese. Così Amilcare G. accompagnava la moglie del megadirigente alla spesa settimanale, portava i bambini a scuola, in piscina, alla lezione di tennis o ai corsi di danza. Si adattava a caricare parte delle masserizie in occasione di cambi di residenza, ovvero si arrangiava a organizzare gite ai monti o al prossimo litorale adriatico, quando la stagione lo permetteva. Per anni, durante i mesi fissati per la caccia, ebbe a scortare il vice-direttore e relativo seguito familiare all’isola d’Elba, dove il funzionario si recava con intenti prevalentemente venatori e con esiti smaccatamente mangerecci. Amilcare seguiva la comitiva, pronto a caricare e porgere la doppietta, nelle rare occasioni di effettiva caccia, oppure si mostrava sollecito, quando si trattava di scegliere il posto dove consumare una “parca” cenetta a base di pesce, o dove pernottare. Un cenno di assenso o un sordo grugnito erano gli unici modi per dimostrare di esserci e di aver inteso gli ordini. Così i tradizionali trenta giorni di ferie all’anno diventavano per Amilcare anche cento, per meriti di assoluta totale dedizione al dirigente di turno.
Un giorno di pazzia
Nonostante le più accurate ricerche, non mi è stato possibile controllare i suoi precedenti di servizio, ma ritengo che nel periodo di ferma militare avesse costantemente svolto le funzioni di “ordinanza”(come dire: attendente) di qualche alto ufficiale del suo reggimento. Questo giustificherebbe le sue propensioni caratteriali al servilismo più abietto. I primi segni di cedimento si avvertirono un giorno di fine luglio, nel furore canicolare di un’estate che è rimasta nei ricordi per lunghezza e costanza di clima. In un pomeriggio in cui si era davvero in pochi a fare lo straordinario, d’improvviso ecco la voce di Amilcare blaterare dall’alto frasi sconnesse, tranciare invettive contro tutto e tutti, inventare bestemmie pittoresche in stretto dialetto, non sempre decifrabili un po’ per la distanza – lo show si stava svolgendo ai piani superiori dell’Istituto – un po’ per la maniera confusa ed ermetica con cui era solito organizzare i suoi rari discorsi. Poi, tra gli ammiccamenti dei pochi testimoni, Amilcare comparve sul pianerottolo del nostro reparto. Teneva con la destra uno scopettone delle pulizie inalberato come un gagliardetto nero di buona memoria, il bastone imperniato sulla fibbia della cintura. Sopra, a mo’ di drappo, pendeva uno strofinaccio da pavimenti, gocciolante. Stringendo fra i denti un tagliacarte zoppicava in modo vistoso e, con il braccio libero, teso nel saluto fascista, andava spruzzando saliva a destra e a manca. Dal profondo del petto emergeva una voce lacera e affannata, una specie di filastrocca che, in una simile circostanza, acquistava un sapore grottesco e pieno di significati reconditi… Amilcare G., mordendo quel tagliacarte e grondando sudore e lacrime per il riso trattenuto, lasciava filtrare tra gli incisivi, nell’eco dei corridoi e delle stanze semivuote, queste formule un tempo inneggianti alla gloria:
“Avanti arditi, in fitta schiera,
che questo è il simbolo
della bandieeeera…!”
Reminiscenze patriottiche, avvisaglie di un parkinson galoppante o l’inconscio gesto di ribellione a una tirannide che lo aveva oppresso per l’intero arco della sua esistenza di eterno sottoposto?
Il notturno spione sconosciuto
Un ulteriore scossone alle sue già precarie condizioni alle già precarie condizioni mentali Amilcare G. lo subì quella notte che venne svegliato di soprassalto dalle grida di una delle figlie ancora in carico alla famiglia, seppure da tempo in possesso di uno striminzito diploma di estetista. La fanciulla, dunque, destata in piena notte da certi rumori sospetti, si era accorta che, profittando delle finestre dell’appartamento a pianterreno, uno sconosciuto la stava spiando dalla strada tra le fessure della serrandina di plastica. L’ombra netta era come ritagliata dalla luce lunare sulla pagina rigata della tapparella. Amilcare accorse affannato al grido e si rese subito conto della situazione, scorgendo nel chiarore notturno la sagoma del guardone. Pensò alla virtù della figlia potenzialmente oltraggiata, urlò non so cosa e si precipitò all’aperto in mutande e canottiera, senza avere il tempo di infilare i piedi dolenti nelle pianelle di casa. Uscì nella strada deserta (erano le tre di notte) inseguito dalla moglie che, sul momento, aveva attribuito il gesto a un improvviso raptus di follia. Subito appresso veniva la ragazza, in sottoveste, scarmigliata e carica di cupi propositi bellicosi nei confronti di chi aveva osato violare la sua intimità. I tre gridavano e correvano alla disperata nel silenzio della notte agostana. Dinanzi a loro c’era solo lo stormire delle fronde dei lecci mosse dalla brezza di una tarda estate e riquadri di luce che d’improvviso si stagliavano sul fondale buio delle case. Il guardone, acquattato in un ansa dell’isolato, in una zona fitta di ombre, si godeva ridacchiando la sequenza del “suo” inseguimento. Poi, uscendo cautamente allo scoperto e, accertatosi che non ci fosse nessuno a controllare le mosse, scomparve dietro l’angolo della prima traversa fischiettando con indifferenza. I tre inseguitori scomparvero ben presto nel buio della notte. La cosa si riseppe e fu oggetto di pettegolezzi e sorrisetti ammiccanti nell’ambiente degli uffici.
Un… cane da guardia
Di conseguenza il Direttore, resosi conto del periodo delicato che l’Amilcare stava forse attraversando, lo convocò e – con fare quasi paterno, fissandolo nel profondo degli occhi, – gli profferì questo discorsetto: “Amilcare senta… lo dico per il suo bene… Lei per il momento non dovrà fare niente. Un sostituto autista l’abbiamo già trovato. Non si stia a preoccupare. Da domani resterà a disposizione dell’Ufficio Sanitario; l’unica cosa che le chiedo e che le raccomando è di stare calmo e di fare buona guardia…”. Il nostro Amilcare G., ligio come sempre agli ordini dei superiori, borbottò fra i denti il suo assenso e non stette a porsi tante domande, a chiedersi il perché di una simile raccomandazione. Si limitò ad accettare le parole secondo il loro lineare e specifico significato e “fece la guardia”. A chi non importa: personale, uffici in genere, clienti occasionali, colleghi, donne delle pulizie, infermiere, Amilcare G. tenne d’occhio tutto e tutti senza fare distinzioni. Le giornate passavano tra un sordo mugugno e una puzzolente boccata di sigaro. E arrivò il giorno in cui, al richiamo del Capoufficio, rispose dapprima con un suono leggero, una nota corta, leggermente lamentosa, che tendeva verso i registri alti della scala tonale: praticamente… un guaito! Inequivocabilmente un guaito, che – alla seconda voce di richiamo del Capo – si trasformò in un veemente abbaiare, ritmato, roco, deciso, da cane da guardia o meglio da setter in corsa dopo la posizione di punta.
In pensione: vita da… cane!
Si era appena mosso e, alzando le narici verso l’alto, si trovò ad aspirare con voluttà il profumo prettamente femminile che, nel frattempo, si era insinuato nell’ambiente. Amilcare sorridendo sornione, abbaiò un sordo “Buongiorno” alla signorina dell’Uffico Protocollo che saliva sculettando le scale. L’ascensore, come avveniva di solito, era fuori servizio. Lui la seguì a passi felpati, la sfiorò con le nari dilatate all’altezza dei lombi fiorenti. La fiutò a lungo, senza che la ragazza si rendesse conto di essere seguita dal segugio ed esplose alla fine in un lungo guaito di soddisfazione, rotto dagli ansiti della corsa. La lingua era fuori, penzoloni. La signorina del Protocollo, dopo un attimo di sorpresa per la strana gag del fattorino, fuggì via verso gli uffici della Direzione, e restò a sbirciare dietro la porta semichiusa della sua stanza, in attesa di possibili quanto ingiustificate reazioni del collega. Amilcare G. oggi si trova ad abbaiare molto frequentemente. Abbaia al mattino, non appena si sveglia stimolato dagli scossoni della moglie. Abbaia quando ha fame. Abbaia alla luna piena, rizzando il naso e il sigaro verso il cielo. Abbaia al brontolìo lontano del temporale, nascosto dietro le serrandine del tinello. Abbaia e sorveglia. Ora che è in pensione – a essere proprio obiettivi – non sorveglia più. Ma si racconta che qualcuno lo ha visto spesso avvicinarsi al tronco degli ippocastani del viale della Stazione, girare furtivamente intorno al fusto dell’albero, fiutare, alzare la gamba destra e… lo pedina costantemente un cagnetto, un bastardino di pelo rosso dall’aria alquanto equivoca.
Goffredo Giachini
22 giugno 2019