Storia e storie dei pescatori del mare Adriatico

Print Friendly, PDF & Email

La città – Civitanova Marche: come è noto questa città di mare ha avuto negli ultimi decenni un boom economico, sociale e territoriale di notevole entità. E questo per lo sviluppo urbano legato all’edilizia, per le innumerevoli attività industriali sorte nel centro e nelle zone limitrofe, per l’importanza che nel tempo è andato assumendo lo scalo ferroviario, snodo di accesso all’entroterra del maceratese sino a Fabriano, ma soprattutto per lo sbocco dell’A/14  sulla costiera adriatica. In contrappunto al modernismo più accentuato, è naturale ricordare la pesca, che per anni è stata l’attività prevalente dei civitanovesi, irta di sacrifici e di pericoli e legata strettamente al mare.

La lancetta – Il mestiere del pescatore (quello che Dante Cecchi ha voluto definire come “il contadino del mare”) rimanda anzitutto allo strumento marinaro che ha caratterizzato per secoli la costa marchigiana: la lancetta, la barca in uso prima dell’avvento della rivoluzione tecnologica, che ha apportato per tanta gente grandi miglioramenti nelle condizioni di lavoro e di vita. Questa imbarcazione – in relazione al territorio prettamente marchigiano – veniva usata dai pescatori non solo di Civitanova, ma anche da quelli di Porto Potenza Picena, Porto Recanati e da quelli immediatamente a nord oltre il Conero e a sud fino a Porto San Giorgio e San Benedetto del Tronto. In uso almeno dalla metà dell’Ottocento fin verso gli anni Settanta del secolo scorso, la lancetta veniva chiamata “bragozzo” a Chioggia e “paranza” in Abruzzo e sembra che queste imbarcazioni abbiano avuto tutte la medesima origine: da una barca veneziana detta “rascona”.  La lancetta, originariamente aveva la prua più slanciata e appuntita, ma pare abbia subìto notevoli mutamenti sia per l’uso specifico del genere di pesca cui era destinata ma anche in considerazione della particolare conformazione dei fondali e dei litorali delle nostre zone. Lo scafo e la carena erano dunque  piatti per agevolare, a esempio, il ritiro dello scafo a terra, la prua e la poppa più piene e arrotondate per me-glio affrontare l’onda corta dell’Adriatico. Non mi dilungo sulle dimensioni della barca, su come era costruito il ponte, su come erano concepite le sponde… sono caratteristiche tecniche che non credo opportuno elencare ora.

La vela – L’attenzione va rivolta all’elemento principe della barca e cioè la vela, che serviva a identificare la barca e la famiglia che la possedeva. Un unico albero e una unica vela triangolare, grande e capace di assorbire la forza propulsiva del vento. Vela, per meglio dire, di forma trapezoidale in robusta tela olona, che veniva istoriata su ambo i lati a colori vivaci usando – come osserva Cecchi – terre d’ocra, infuso di corteccia di pino e un po’ di olio di lino cotto. Oltre questa vela principale la lancetta aveva tre altre vele più piccole, i fiocchi, chiamati “menzana”, “menzanella” e “polacchina”. La carena e il timone, per la parte immersa, venivano interamente coperti con catrame. Ai lati della prua erano i caratteristici “occhi” in legno, quasi a perpetuare una tradizione che si fa risalire agli antichi Egizi. Ogni lancetta si poteva distinguere facilmente dalle altre per i colori della vela e i simboli disegnati su di essa. I colori: il giallo scuro, il rosso mattone e il nero, più raramente il verde e il celeste. I disegni: semplici figure geometriche, cerchi, triangoli, rombi, oppure fasce orizzontali, immagini più complicate di animali, di simboli legati alla superstizione, come cornetti, ferri di cavallo, ricordi delle emigrazioni o di viaggi, i miracoli della tecnica come il pallone aerostatico, l’elica dell’aeroplano; simboli prettamente religiosi come l’ostia consacrata e l’ostensorio, la stella cometa ecc. Se il vertice superiore della vela aveva il colore scuro significava che la barca era de “lo parò”, cioè padronale.

I soprannomi – I marinai avevano quasi sempre un soprannome, come d’altronde si usa nelle nostre campagne ed ecco forse l’accezione voluta da Cecchi del termine “contadino del mare”. L’usanza, stranamente, si era diffusa anche nel mondo della marineria, tanto è che anche gli strumenti essenziali di bordo venivano identificati con nomi di pronto apprendimento come la “palommella” che stava ad identificare un gallo se disegnato sulla vela, “la rota de lo carro” era il timone della barca, quasi fosse un biroccio di campagna… d’altronde nelle nostre campagne non c’è “lu timò” de lu carru? “Lu tirassegno” identificava i vistosi cerchi concentrici che apparivano spesso sulla vela, i gabbiani diventavano “li picciù”. Come per le vele così i nomi dati alle lancette erano di diversa origine e significato. Mi limiterò a dire che alcuni erano legati alla famiglia di origine dei proprietari e così ecco Mamma Maria – Antonio figlio – Ulderico padre… oppure, quando si vantavano i pregi dell’imbarcazione, troviamo: Indomito, Invincibile, Trionfo, Sciccheria; dopo il primo conflitto mondiale si fece riferimento ai grandi valori di: Pace, Libertà, Speranza o – più in genere – si adottarono nomi di personaggi storici d’ogni tempo: Dante Alighieri, Nazario Sauro, Annibal Caro, Andrea Doria; né mancavano frasi scherzosamente allusive: Eppur si muove, Te lo dirò, Dio provvede, Sempre avanti e via discorrendo. Quando una lancetta veniva sostituita da un’altra più nuova non era difficile trovare: la Nuova Maria, Clemente rinnovato, Terzo Nuovo Mario ecc.

Le “palanche” – Per tirare a riva queste imbarcazioni – e ovviamente per sospingerle a mare –  si usavano un tempo le cosiddette “palanche” piccole travi di legno su cui la chiglia piatta della barca scivolava facilmente. Nella fase di “rimessaggio”, il sistema consisteva nel togliere man a mano i travetti spostando l’ultimo a mare e trasportandolo verso la riva. Nel varo era spesso sufficiente la forza di un solo uomo – detto “scalante” – che appoggiava la schiena sulla poppa per spingere lo scafo in acqua. Più recentemente, al posto delle palanche,  molti  adottarono dei salsicciotti di plastica rigonfi d’aria.

Le reti – Le reti usate per la pesca erano comunemente di due tipi, quella detta “carpesfòje” e “la reta”, cioè la rete a strascico chiusa da un sacco in cui si adunava il pescato. Quest’ultima di solito era lasciata a mare da due lancette che lavoravano in ambio, mentre la “carpesfòje”, tenuta da un solo cavo di traino, poteva fare riferimento anche a una sola imbarcazione.

Le previsioni del tempo – D’importanza capitale per la riuscita della pesca erano le previsioni del tempo, che non venivano fornite, come accade oggi dai normali mezzi di comunicazione, ma erano determinate dal mestiere e dalla pratica dei marinai che, spesso, levatisi durante la notte o al massimo all’alba, osservavano se il cielo era chiaro, se le stelle avevano un particolare brillìo, se “lampàva” – se c’erano nuvole, e qual era la loro forma. Di giorno osservavano il sole, il volo degli uccelli, il comportamento dei pesci, dei gabbiani  (li cucà), dei delfini  e da tutto questo traevano i loro auspici.

I proverbi – In uso in tutto il territorio della Marca è ancor oggi il detto: “D’inverno la fonte, d’estate lu monte”  per dire che il tempo è determinato durante l’inverno dai venti che vengono da nord o est (tramontana, maestrale, bora,) in estate dai venti da ovest che soffiano dagli Appennini. Altro motto era “Quanno c’è lo cerchio tonno alla luna, vène furtuna” cioè la tempesta, il fortunale; “Scirocco, scirocco, ogghj tiro e domà scrocco” se oggi soffio domani porto tuoni e temporale. “Quanno levante se mòe, o tre o sei o nove”: cioè il vento di levante sarebbe durato diversi giorni. Quando da terra veniva “lo garbì” cioè il vento da ponente, quello che in campagna e più comunemente si chiama “montanaccio” non era opportuno prendere il mare, perché al largo le barche avrebbero trovato troppi contrasti. Di forte pericolo era “la trescia” una striscia nera o viola-scuro all’orizzonte, che poteva originare anche trombe d’aria. Il volo alto delle rondini era indice di alta pressione e tempo buono mentre segno di cattivo tempo erano pure i salti che i rari delfini facevano sopra le onde o altri piccoli pesci che – si diceva in gergo – “facea frije lo maro” o anche se “lo Monte Conero pijava lu cappello”. Si aveva “vonazza morta” quando il mare era calmissimo e non c’era una bava di vento.

Il cibo – Una volta stabilite le condizioni del vento, i pescatori partivano a bordo delle barche, portando seco una “panaretta” cioè un cestello avvolto in un fazzolettone, con poco pane  bagnato con acqua e aceto, poiché il companatico lo avrebbe fornito la pesca. A volte c’erano gli avanzi del desinare, qualche uovo sodo, una fetta di salame o di mortadella, verdure cotte.

La pesca – Con le reti a strascico si praticava la cosiddetta “pesca de fòra-via”: con vento costante e mare buono si prendevano merluzzi. Con la pesca a “pescio nòo” si catturavano perlopiù tipi di pesce azzurro, mentre  il pescato detto “de la valla” era quello a breve distanza dalla costa e in prossimità delle foci dei fiumi: le vittime erano triglie o “rosciòli”. Le sogliole si prendevano con la pesca detta appunto “carpesfòje” vicino alla costa e navigando in parallelo alla stessa. Pescando in coppia, le lancette si chiudevano a V man a mano che erano ritirate le reti a bordo e finivano con il bordeggiare fianco a fianco. Al rientro gli equipaggi si dividevano, una barca tornava a riva e alcuni uomini di questa restavano a “capà lo péscio”.

I nomi in gergo dei pesci – Vale la pena di citare i nomi in gergo di alcuni tipi di pesce pescato nelle nostre zone: la fritturetta mista, la papalina, li rosciòli e li roscioletti, li vuatti, le zanchette, li mùsciuli, lo pesce turchino, le seppie, li furbi (i polipi), le panocchie, le varàcole, le còngole, le cucciolette e via dicendo.

La vendita del pescato – Il pesce pescato o il ricavato dalla vendita era diviso in quattro parti uguali, due per la lancetta, una per lo “parò” e una per il marinaio. Quando il pesce arrivava in pescheria, gli scalanti o i familiari si ponevano in lunghe file, tenendo due a due le ceste con il pesce, in attesa che li “pesciaroli” o i grossisti lo acquistassero dopo un’asta effettuata dai “vennetori” cioè da coloro che battevano l’asta stessa. Per ottenere maggiori guadagni, alcune donne “le pesciaròle” (quando la pesca era stata particolarmente proficua)  caricavano le cassette sul carretto a due ruote, e munite di “velància” e carta di giornale, andavano a vendere direttamente il pesce per le strade del paese, per le frazioni, fino ai piccoli centri dell’entroterra. Ho ancora negli orecchi le voci di certe robuste donne che, a Montelupone, in giorni di mercato, si presentavano e girando per vie e vicoli, invitavano a comperare al grido: “Pescio, pescio, vivo, vivo…”. 

 

– D.Cecchi: “MC e il suo territorio; la gente”;

– AA.VV.: “Le Marche tra parola e immagine – P .Grimaldi il mare”;

– AA.VV. “La lancetta”.

Goffredo Giachini

24 aprile 2020

Sii il primo a dire che ti piace

Commenti

commenti