Testimonianza scritta e inedita: il colera a Pausula nel 1855

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Da un opuscolo inedito la testimonianza del medico condotto di Pausula, Marino Marini, che curò i malati durante l’epidemia di colera del 1855.

L’opuscolo sconosciuto – A fare luce su questo triste evento c’è un opuscolo fino a ora sconosciuto “Del colera che ha dominato nella città di Pausula dal giorno 3 luglio hai 14 agosto 1855 ragguaglio del Dottor Marino Marini medico comprimario condotto” – Fano tipografia di Giovanni Lana 1856.

Il racconto del medico che curò i colerosi – Marino Marini era originario di Loreto e dal 1839 fu medico comprimario condotto a Pausula che adottò come sua seconda patria, è autore anche di un altro saggio dal titolo “Pausula il suo territorio topografia statistica del Dottor Marino Marini di Loreto medico comprimario condotto in Loreto dalla tipografia dei fratelli Rossi 22 maggio 1855”, egli poco più di un mese prima del colera di Pausola scriveva: “Il clima di Pausula è salubre conciosiachè non si abbiano a rimarcare nell’interno influenze epidemiche, il fatale morbo asiatico, che travaglia Macerata al momento stesso in cui scrivo; fino ad ora né suoi sbalzi spaventevoli ha lasciato incolume Pausula, in cui si gode di invidiabile salute”. Ma questa calma e questo clima salubre ahimè durò ben poco, l’anno seguente alla diffusione del colera, il Dottor Marino Marini fa un resoconto molto preciso sull’origine e la progressione del morbo.

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I primi infetti – Nel mese di giugno scrive, ci furono 5 casi, “Nicchio e Canzonetta, quest’ultimo morto il 14 giugno, poi Carletta, Vincenzo Gatti trattato dal dottor Fiorani, una donna di Cerqueto, morta senza visita medica, e Isidoro Luciani trattato dal dottor Publio Torelli”, lo stesso Marino Marini e il primario di Pausula il dottor Publio Torelli ritennero si trattasse di casi isolati.

Il 3 luglio esplode il contagio – Alle 9 di mattina del 3 luglio si contano già 20 ammalati di colera, immediatamente si riunì La deputazione sanitaria, il cardinale De Angelis arcivescovo di Fermo, cede l’ospedale civico al municipio il quale in poche ore appronta 50 letti per gli infermi.

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La città fu divisa in tre rioni e a ogni medico fu assegnato un rione – “Aumentando di proporzioni gigantesche l’imponenza del morbo, e la cifra dei malati, e mal potendo io sopperire a tutti, la deputazione sanitaria trovò di dividere la città in rioni. Al primario dottor Publio Torelli fu assegnato quello della strada grande fino a Porta Sejana, di S. Antonio, e Macelli. Al dottor Fiorani le due Borgate di Cerqueto. A me stesso oltre l’ospedale, e le carceri, il rione che dalla porta Cappuccina si estende a tutta la contrada Castello; al Giri, la campagna, sussidiato dal Taccheri e dal dottor dall’Acqua. Più tardi infermatosi (ammalatosi) il dottor Fiorani, la deputazione sud mi addossò l’onere delle due contrade Cerqueto, le carceri erano esclusivamente sottoposte alla mia medica direzione e li 17 detenuti furono presi da morbo tremendissimo”. I tre farmacisti della città, a turno, per tre giorni fornirono le medicine agli ammalati. La Deputazione sanitaria in seduta permanente eleggeva deputati, decretava sussidi, vitto, vino e medicinali ai poveri che non potevano essere trasportati all’ospedale.

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Il timore di contagio dei medici principianti – Il Marini racconta: “Nei primi giorni li addetti nuovi alle forme spaventevoli del morbo indiano, trepidanti al contagio, nicchiavano, declamavano voler ritirarsi. Ad arrestarli, a vincerne le ubbie paurose diedi esempio. Mi avvicinava alli infermi esplorandone il ventre, palpandone la fronte, i carpi, con calma, con aria tranquilla, disinvolta, e di perfetta sicurtà. Veggendo come nel seguito a me verun sinistro ne incogliesse, stettero. Non si parlò mai di abbandonare i colerosi, fui gagliardamente secondato dalli due assistenti Floriano già laureato in chirurgia, e Luigi, figli del mio collega comprimario dottor Severino Fiorani, i quali ebbero modi, condotta sotto ogni aspetto commendevoli”.

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I malati renitenti a farsi condurre in ospedale – Ottanta si annoverano gl’infermi entrati. Ventisette soli ne sortirono vivi. Cifra non del tutto soddisfacente, ma indeclinabile, doppoiché il popolo minuto, sebbene privo di ogni maniera d’assistenza nelli immondi, ed infetti abituri, fu oltremodo renitente a farvisi condurre; ed allorquando jugulati da ferrea necessità pur si risolvevano, era troppo tardi, era trascorso il tempo prezioso ad agire. Arroge i colerosi trasportati da longique contrade del territorio, scassinati, scossi bruscamente dal rude sobbalzare di un carro, sotto la sferza di un sole cocente di luglio, giunti al luogo di loro destino avean mestieri più presto di seppellitori, che di medici argomenti. L’intera famiglia agricola Billoni, per dirne una, madre e tre figli, pervennero dalla campagna all’ospedale conci per guisa, che sfidando ogni ragione di soccorsi loro apprestati, nel volgere di poche ore tutti e quattro furono tra i più.

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Il colera entra nelle carceri – Intanto ecco le carceri nelle quali si contavano 46 detenuti, invase ancor esse e ben diciassette tra uomini e donne vennero trasportati all’ospedale. Dieci furono freddati dal morbo. Sette ne trionfarono. Tra questi ultimi, un Giovanni Terenzi, per giunta al colera fu assalito da febbre tifoidea con petecchie. Ebbe poi febbre periodica a tipo quotidiano, poi parotite critica, poi tumori all’avambraccio sinistro, alla scapola corrispondente, che dopo alquanti giorni di strazi patiti sappurarono emettendo a sbocchi materie siero-marciose. E per dire delle carceri, lo spavento, lo scompiglio di quella moltitudine stivata in locale non amplo, fu estremo. Con rigide prescrizioni igienico-sanitarie, coll’aver fatto murare ermeticamente le latrine quasi riboccanti, che esalavano nella casa di reclusione fetore insopportabile, fu imbrigliata la parcella. Non si ebbe più un coleroso. I delinquenti a piccole condanne uscirono graziati. Alli altri fu permesso starsi a baloccare parecchie ore del giorno nel piazzale di fronte alle carceri, onde fruissero di un aere più puro, sorvegliati soltanto da un custode, e da un secondino.

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I medici scarseggiano si reclutano giovani neolaureati – “Il governatore, ed il municipio provvidero invitando con lettera d’ufficio il mio collega chirurgo dottor Giri onde si prestasse alle visite della città e della campagna chiamando a sussidiario per quest’ultima un dottor Taccheri, che in Macerata ebbe qualche pratica nella cura del colera, un dottor Acqua esordiente, ambedue forniti del solo diploma di laurea medica. L’impero delle circostanze fece dar passata all’irregolarità. I medici scarseggiavano la centrale sì minacciati, od invasi negavano permessi di assenza, ed esibivano grosso soldo, a larghi partiti a fisici estranei, acciò accorressero spendessero ogni loro ingegno a tutelarli, a salvarli dall’irrompente inimico”.

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Quei giorni terribili di luglio – “E diffuso per le Contrade della città, e pel circondario estesissimo, acquistò il colera gigantesche proporzioni. La moria nei giorni 9, 10, 11, 12, 13, di luglio fu tale da noverarsì giornalmente 28 in 30 cadaveri. Dappoiché con lo stesso impeto col quale proruppe nel giorno 3 luglio, retrocesse come per incanto nel 14 agosto. Il municipio peraltro a premura, ed ordinanza della deputazione Sanitaria prosegui altre settimane a far distribuire una minestra giornaliera di riso con carne indistintamente a tutta la poveraglia. Che quel vitto nutritivo tenne in benessere la moltitudine e prevenne gli attacchi del morbo spietato infrenando l’attitudine a contrarlo. Non pochi di nascita civile, a temperanza ebbero ad esserne funestati. Pochissimi trapassarono, tra questi, un signor Pietro Marucci già entrato nello stadio della convalescenza, piombò per disordini dietetici pagando ultimo, il tributo al mostro Gangetico”.

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La conta dei morti – Il dottor Marini fa un resoconto dettagliato dei contagiati e dei morti: “A riassumere 379 tra città e Contado furono i meschini attaccati da colera legittimo, strettamente legittimo. Se ci fosse attagliato, nulla di più facile che impinguarne la lista a tutte spese dei celerini, vociferando poi, secondo il malvezzo di alcuni confratelli, di guarigioni sfolgoranti, prodigiose. Tra noi sì sfrontate menzogne non allignarono. Dei 379, 162 guarirono, e 205 (la più parte donne, e fanciulli) riposano nella augusta magione. Nella sfuriata del male, le donne più avanti nella gravidanza, le puerpere ben poche scamparono. Moltissime allibite, striminzite da terrore insuperabile furono travolte a fine immaturo”.

La discordanza nel numero dei morti – L’anno seguente, dopo aver letto il ragguaglio del Marini, di cui stiamo parlando, il primario di Pausula Publio Torelli, in una lettera resa pubblica dichiara quasi il doppio dei contagi e dei deceduti,e accusa il dottor Marini di non aver riportato dati precisi. Il Marini risponde alle accuse con un’altra lettera datata 20 maggio1856, anche questa resa pubblica e data alle stampe da Giuseppe Cortesi di Macerata: “Quella da me pubblicata è desunta dai registri del comune. Seppur v’ha rimarchevole differenza con l’altra che voi avete tratto dai libri parrocchiali (si riferisce al dottor Torelli), già non accade perché il colera sia durato più lungo tempo di quello, ch’io le assegno nel mio ragguaglio, ma perciò stesso che non pochi segnatamente a del contado, infermarono, morirono senza implorare soccorso medico per non so quale malaugurata caponeria. I congiunti medesimi ne tradussero di quieto le spoglie caduche al pubblico cemeterio senza darsi carico di avanzarne denunzia a cui di ragione. Aggiungete a questa cifra i bambini spenti da tutt’altro malore, e furono pur molti, ed alquanti mietuti pur essi da morte inesoranda per incomodi ordinari. Ed ecco tolta di mezzo la differenza della vostra cifra con quella da me esibita”. Il dottor Marini ebbe un ruolo fondamentale nell’assistenza e nella cura dei malati, il suo primario infatti, il dottor Publio Torelli si ammalò di colera anche se in forma lieve, e quando tornò a curare i malati manifestò spesso malesseri e indisposizioni (che qualcuno, compreso il dottor Marini imputarono al timore di un nuovo contagio) tanto che lo stesso dottor Marini si dovette caricare anche gli ammalati del suo primario.

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Con quali armi i medici di allora curavano il colera? – Alla fine di questo racconto il dottor Marini fa alcune considerazioni sui metodi per curare il colera. “Tornato all’ordinario regime, sì diè sesto a tutto, e fu sollecitudine attivissima in quelli ai quali si incombeva a togliere ogni vestigia dei durati travagli. Solo in via di precauzione rimasero al posto lì addetti alle porte onde praticar suffumigi su i passeggieri. Divisamento frustraneo, quanto dispendioso, conciosiaché io non servi alcuna fede alla fumigazione del Morveau. (Il francese Louis Bernard Guyton-Morveau nel 1773 propose una soluzione di cloruro di sodio e acido solforico per disinfestare locali e materiali infetti, tramite affumicatura), che risultando di una massa infinitamente più esigua il rapporto all’aere infetto, che si pretende depurare potranno giammai sbarazzarla, ridurla a condizioni di non ingenerar morbi contagiosi a cui tocchi il triste destino di respirarla, più non essendo fino ad oggi dato a noi penetrare in che consista l’intima natura del colera, potremmo nemmeno assegnarne lo specifico a neutralizzarla? Ora al metodo curativo, convenne adattarlo compassarlo alle circostanze particolari, alle località. Dappoichè io tengo per fermo, che il colera morbus, comunque di indole identica in tutte parti del globo acquisti nullamento un quid sui generis di specialità a norma della postura dei paesi manomessi, vari per clima per costumi degli abitatori. E per ciò che l’oppio ed i suoi preparati, che si bene corrisposero in Loreto a modo di esempio, e in Sambenedetto, secondo che mi informano quei medici Egregi, qui in Pausula risultò nocivo, e fu giocoforza smettere di amministrarlo, tanto i nostri malati aveano di congestione. Però nei clisteri di riso laudanati trovai giovamento, e mi corrisposero, l’ipecacuana (Arbusto delle Rubiacee tipico del Brasile dalle cui radici si estrae l’omonima droga ricca di alcaloidi, impiegata in medicina come espettorante e emetico) a dosi refratte, l’aceto di ammoniaca, l’infuso di camomilla, l’olio d’oliva e talvolta nella stretta del momento qualche cucchiaiata di vino generoso. Posso dir nulla dell’uso del ghiaccio, che non fu possibile procurarsene. Sostituii ad esso le bibite fresche di limone, di acqua di riso, di orzo e tamarindo. Ottenuta la reazione corrisposero all’uopo il sanguisugio ai vasi emorroidari (salasso nella zona del retto). Talvolta se trattavasi d’individui robusti, giovani, atteggiati a pleura, ebbi ricorso alla flebotomia (salasso) del braccio con esito favorevole”.

Come immaginiamo, le soluzioni adottate dal nostro bravo e volenteroso dottore, risultavano inefficaci e in alcuni casi (uso dell’oppio o salasso) erano controproducenti.

In chiusura le considerazioni del dottor Marini – “E qui depongo la penna. E qui non vò defraudare delli elogi dovuti la docilità, l’obbedienza, del Popolo Pausulano, alle mediche prescrizioni, pegno di fiducia commendevolissimo, e soave compenso alle durate fatiche. E qui mi giova ripetere, come il governatore Matteucci secondo da chi reggeva la cosa pubblica, abbia ben meritato della città per lui retta, come il clero, le corporazioni religiose, emergendo tra queste i Minori Conventuali, non sieno venuti meno all’alto loro ministerio dando prove luminose di carità, di abnegazione, di zelo evangelico. Carità, zelo, abnegazione, che posti di fronte al terribile nemico indiano non retrocessero, impartendo alla sconsolata popolazione quella calma, quel conforto, che la religione dè nostri padri solo può donarci nelle supreme sventure”.

Antonio Volpini

15 giugno 2020

Didascalie immagini

1 – Frontespizio dell’opuscolo pubblicato dal Dottor Marino Marini sulla peste di Pausula del 1855. Fano 1856

2 – 3 – 4 – 5 – pagine interne dell’opuscolo di cui al n. 1;

6 – lettera di risposta del dottor Marini al primario di Pausula dottor Publio Torelli Macerata 1856;

7 – lettera con firma autografa del re di Sardegna Carlo Alberto, 3 settembre 1801; il sovrano istituisce le “Giunte Divisionarie”, il loro incarico era quello di prendere provvedimenti immediati in caso di colera, che in quel periodo si era propagato in Europa. Il colore bruno della carta è dovuto alla disinfestazione mediante il processo di affumicazione con il metodo Morveau, una soluzione a base di cloruro di sodio e acido solforico;

8 – fede di sanità del 2 novembre 1630 “Si parte da questo luogo libero facendo per l’Iddio grazia da ogni sospetto di peste”;

9 – fede di sanità di S. Giovanni di Novellara, Reggio Emilia 22 giugno 1657, “Giovanni Mori Bigari parte da questa città con Caterina sua moglie di anni 45 e la figlia Giovanna di anni 14”.

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