“La battaglia dei Campi Catalaunici” – VI puntata

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Terenzio era rimasto a riposare nascosto dalla fitta vegetazione di rovi ed erbe fluviali che abbondavano in quel tratto, ben presto cadendo in un sonno ristoratore. Un nuovo giorno stava per arrivare e la luce solare schiariva ormai l’ambiente circostante.

Attendere o incamminarsi? – Era combattuto sul da farsi: da un lato cullandosi sulla promessa del Magister militum di ripassare presto da quel luogo con le truppe gotiche che era andato a cercare e dall’altro dal pensiero che la salvezza di soli due uomini non poteva influenzare la scelta, dovendosi Ezio prima interessare delle Legioni che attendevano il ritorno del loro condottiero per battersi contro una moltitudine smisurata di barbari decisi a tutto. Pensò bene comunque di aspettare ancora qualche ora per potersi organizzare anche perché il ritorno al lontano accampamento trincerato si presentava impegnativo: occorreva percorrere a piedi sulla brughiera una distanza assai lunga anche per un camminatore come lui, allo scoperto e in piena vista, con il rischio di essere sorpreso e, nella migliore delle ipotesi, ucciso senza sofferenze.

Il traditore rientrato nel castrum – Il suo cavallo era scomparso e non provò neppure a chiamarlo per evitare di essere scoperto da qualche altro malintenzionato che temeva ancora presente nei paraggi. Non sapeva infatti che Ruhr il traditore era rientrato nel frattempo al castrum, confidando nel fatto che nessuno del drappello -sicuramente in quei giorni assai lontano- lo avrebbe smascherato e potendo così trasmettere altre preziose informazioni sui movimenti delle truppe romane.

Alla ricerca di cibo – Terenzio decise dunque che la cosa migliore da fare era quella di cercare qualcosa da mangiare, mentre per bere c’era la limpida acqua del fiumicello e, almeno per questo, non vi era problema. Il giorno stava scorrendo velocemente; costeggiando il Soudé lungo la riva destra, l’attenzione del “nostro” fu attratta da una pianta di mandorle selvatiche. Era l’epoca dei gustosi mandolini e così ne fece una buona raccolta, cominciando a mangiarne con appetito. C’erano anche le prime more sui roveti della rota del fiume e quel dolciastro sapore lo riportò per un attimo col pensiero alla sua casa lontana, laggiù nel Piceno, che cominciava a disperare di poter un giorno rivedere.

Le cornacchie – Nere cornacchie, volteggiando sempre più basse sopra alle canne ed agli arbusti accompagnati da bassi tamerici, lasciavano intendere di aver scoperto i corpi dei due romani uccisi e scendevano giù per iniziare il ghiotto banchetto con le loro carni. Terenzio, che aveva recuperato la spada, incurante del pericolo di essere visto, non resistette oltre e si lanciò decisamente su quelle bestiacce assetate di sangue umano. Con rapidi e precisi fendenti decapitò le più vicine mentre le altre, vista la mala parata, ripresero contrariate il volo aspettando che il disturbatore si stancasse e desistesse da quel fare.

La sepoltura – Povero Camillo! Certo in vita, da Decurione, qualche volta aveva esagerato nei rimbrotti ai suoi sottoposti ma in realtà, oltre alla voce grossa, non aveva mai fatto del male ad alcuno ed era stato per questo uno dei sottufficiali più benvoluti dalla truppa. Terenzio sapeva di andare incontro ad una fatica sovrumana, ma non si sentiva di abbandonare alla mercé di quelle bestiacce i corpi di Camillo e Didimo, colleghi e amici. Individuò dunque nei pressi una bella quercia che protendeva al cielo i suoi verdi rami e, facendo leva con la sua spatha, iniziò a scavare una ombreggiata fossa. Rimuoveva la terra e poi, con le mani, la scansava accumulandola nei pressi per poterla poi riutilizzare. Fu così che, dopo due o tre ore di intenso lavoro, riuscì a scavare una profonda sepoltura ove fece scivolare i corpi senza vita dei due amici, uno dopo l’altro, congiunti in un deciso abbraccio come ad aiutarsi a salire assieme sulla barca di Caronte. Recitare una breve preghiera e ricoprire i due corpi inerti con la terra scavata fu un tutt’uno e così Terenzio poteva finalmente dire di aver assolto un fondamentale dovere di uomo e di cristiano, salvando quelle due spoglie dallo scempio delle bestie selvatiche che già si accingevano al loro lauto pasto. Quella triste incombenza aveva impegnato Terenzio per tutta la mattina così intensamente da non accorgersi del sopraggiungere di un ospite disinteressato al suo triste lavoro, ma estremamente deciso a placare la fame assaggiando le cosce di un soldato romano.

Il lupo – Giunto lì gattonando, si era raggomitolato su sé stesso pronto a saltare sulle spalle dell’ambita preda per farne un solo boccone. Terenzio si voltò proprio nell’attimo in cui la bestia stava per spiccare il salto mortale fissandolo con i suoi occhi di bragia che da soli erano capaci di paralizzare le vittime predestinate. Il lupo però aveva sbagliato i suoi conti, sottovalutando il suo avversario: non sapeva evidentemente cosa significasse avere contro un legionario romano con in pugno la spatha, anche se in quel momento usata come utile attrezzo da scavo. Terenzio, con uno scarto fulmineo sulla destra, evitò il balzo del lupo contemporaneamente sollevando ad angolo retto l’arma, tagliente ancora come un rasoio nonostante lo scorretto utilizzo che le aveva riservato. La pelle del lupo si aprì per tutta la lunghezza del fianco e del possente collo e la lama tranciò netta la giugolare. “Chi di spada ferisce di spada perisce”, chissà quante volte in passato quella belva aveva soppresso le sue prede troncando a esse quella vena! Come in un sorprendente gioco dei contrari, una sorte beffarda aveva punito l’ardire  del lupo ed ora quel sangue vermiglio scorreva a fiotti portando via con sé la sua avventurosa vita da predone della brughiera. Il fortunato colpo, frutto della prontezza del legionario avvezzo al combattimento all’arma bianca, aveva lasciato Terenzio senza fiato; sgomento per il pericolo corso ma vivo e vitale, deciso come non mai a reagire a quello stato di costante vicinanza con la morte che ormai da qualche tempo sembrava accompagnarlo.

Il ricordo del padre – Un pensiero di ringraziamento volò rapido a quel Dio che, lui piccolo, il babbo Pertinace gli aveva messo in cuore e che da allora lo aveva sempre protetto allungando la potente Sua Mano su quel capo cocciuto e vincente. “Non arrenderti mai, figlio mio. Combatti per il bene. Rispetta i Suoi Comandamenti e non avrai mai a pentirtene. Solo così un giorno potremo rincontrarci Lassù per vivere finalmente in pace e gioia, illuminati dalla Sua eterna Luce”. Erano state le ultime parole del vecchio Pertinace prima di lasciarlo andare soldato e Terenzio ne aveva fatto tesoro, cercando ad ogni passo della vita di uniformarsi a questi saggi consigli.

Il cavallo – L’emozione per quella pericolosa avventura, risoltasi così felicemente, passò presto riprendendo Terenzio l’abituale fiducia nei suoi mezzi. “Rimetti i piedi per terra e non temere. Te la sei sempre cavata e te la caverai anche questa volta”. Era questo un bel parlare a sé stesso; non è che avesse cominciato a dare i numeri, ma in realtà il suo carattere un po’ chiuso e taciturno lo portava spesso ad isolarsi per il piacere di riflettere da solo sui casi della vita e sul da farsi nelle situazioni di dubbio. Spesso per caricarsi esprimeva a voce alta queste riflessioni quasi a volersele sentir dire da altri e per poterle memorizzare meglio. “A parlare non è fatica” si sminuiva talvolta da sé per rimanere agganciato alla realtà, ma in quel momento la fortuna venne nuovamente in suo aiuto. Un vicino nitrito lo rincuorò facendogli comprendere che il suo cavallo si era finalmente deciso a farsi vivo ed a chiamarlo. Certo è ben strano il rapporto dell’uomo con gli animali. La presupponenza umana spesso fa dimenticare che anche questi hanno un cervello ed un carattere che, seppure diversi da quelli dell’uomo, li guidano nelle loro azioni e decisioni.

Il rapporto uomo-animale – Fondamentale è l’esempio del cane la cui presenza costituisce motivo di sostegno e di conforto in molte occasioni, tanto da farlo considerare come un vero e proprio amico dell’uomo, capace di sentimenti ed espressioni talvolta sublimi, specie nei confronti dei bambini e, naturalmente, dei padroni. Ma anche i cavalli hanno un cervello, dotato di intelligenza non comune, e sono capaci di riconoscere le persone e di affezionarsi specie a chi li accudisce e a chi li tratti con garbo e gentilezza. Certo i cavalli da guerra avevano, specie a quell’epoca, poche occasioni per affezionarsi ai loro cavalieri; spesso maltrattati, feriti, sfruttati e magari abbandonati di nuovo a una vita libera ma randagia, non avevano molte occasioni né modo di acquisire e poi esprimere appieno le loro capacità intellettive. Era il caso di quel cavallo che la sera dell’improvvisa missione con il Magister era stato assegnato a Terenzio, il quale per parte sua era montato in groppa e lo aveva spinto a correre senza riposo così a lungo e senza tanti complimenti per non perdere il passo con gli altri del drappello. Nel lasciarlo andare libero per non essere scoperto dagli assalitori dopo l’agguato, Terenzio si era solo preoccupato di fargli una carezza sul groppone per ringraziare di averlo condotto sano e salvo fin lì e forse gli aveva allungato un paio di carrube che il suo collega Ennodio, siciliano, una volta gli aveva dato come portafortuna e che lui aveva conservato per scaramanzia. Sta di fatto che, per non sentirsi più solo o per amicizia o per gola, il cavallo era tornato.

Il riposo notturno – Ritrovarlo nella macchia della folta vegetazione lungo il fiume dopo il nitrito fu facile e lui si fece riprendere rapidamente accostandosi mansueto all’uomo che da ultimo lo aveva cavalcato. Quel fortunato ritrovamento aveva rincuorato Terenzio, che aveva intravisto uno spiraglio di salvezza senza dover percorrere a piedi il lungo tratto che lo separava dal castrum da cui era partito. Decise però di attendere la notte prima di salire a cavallo, cercando così di dare meno nell’occhio di eventuali assalitori alla ricerca di esploratori o nemici romani. Nell’attesa si dedicò ancora alla raccolta di frutti e di bacche selvatiche che potessero alleviare i morsi della fame ormai imperante, tanto da fargli addirittura desiderare di poter presto riassaggiare quelle mefitiche sbobbe, che le cucine legionarie ogni dì sfornavano nel campo fortificato. La lunga giornata quasi estiva era ormai giunta al termine e, “nell’ora che ai naviganti intenerisce il core”, di colpo Terenzio ritornò a sognare: “Che fai questa sera?”.

Il sogno, i pensieri, il ritorno – La bella Giunia era lì che lo stuzzicava di nuovo con quel fare sbarazzino e malizioso che la natura le aveva regalato. Lui, cieco come tutti gli innamorati, stava prostrato ai suoi piedi, pronto ad accontentarla in ogni capriccio nell’attesa di un ricambio gioioso che veniva, ma solo di rado. Povero meschino! Quelle curve armoniose, quel sorriso intrigante avevano rapito la sua mente ed il cuore. Il rifiuto finale, quel dì in cui arrivò, lo lasciò frastornato e deluso. E il ricordo di attimi e di sguardi furtivi, di carezze accennate e discorsi allusivi, cancellati di colpo senza alcuna ragione, lo gettò nel girone infernale degli amanti perduti. Ci pensò qualche giorno, aspettando un po’ ansioso un pentito richiamo, che non era venuto. La vita chiedeva ogni giorno una scelta; non poteva aspettare. Ripensò casualmente al povero Clinia, personaggio uscito dal cilindro di quel Publio Afro che aveva ispirato il babbo Pertinace nella scelta del suo nome: Terenzio. In una delle sue opere più famose (l’Heautontimorumenos — “il punitore di sé stesso”) rappresentata un giorno nell’Anfiteatro di Ricina, quel celebre commediografo manda a divenire militare il suo personaggio rimasto a bocca asciutta con la bella Antìfila. E così, forse per pena d’amore, Terenzio da Ricina, lasciati padre e sorelle se ne era andato via di casa per vestir da soldato. La paga era buona, il vitto un po’ meno, le avventure: quotidiane, la fortuna: fin lì presente. Il solito, tempestivo nitrito, lo richiamò finalmente all’ordine. La luna era già alta in cielo e rischiarava come di giorno il sole la sterminata brughiera. “Bando alla malinconia!” esclamò Terenzio. Montato su in groppa, briglie e pilum in mano, diede inizio al ritorno. continua

di Giuseppe Sabbatini – con illustrazioni di Lorenzo Sabbatini

23 giugno 2020

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