Lavoro, scherzi, avventure e puzze allo zuccherificio Sadam di Montecosaro Scalo

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Come forse avrò accennato in precedenza, per alcuni periodi nel colmo della calura estiva degli anni 60/70, fui occupato presso lo zuccherificio della Sadam di Montecosaro Scalo. Fu una esperienza indimenticabile, soprattutto perché, per la prima e unica volta in vita mia, ebbi la ventura di lavorare anche di notte.

Addetto alle “vasche” – Ero stato assunto dal Consorzio Agrario di Macerata (o meglio dall’Associazione Bieticoltori) come incaricato a sorvegliare le cosiddette “vasche” all’interno dello stabilimento, a una delle pese, esattamente a quella in uscita. Per tale mansione erano previsti tre turni a rotazione per l’intero periodo di impiego e cioè: dalle ore 6 del mattino alle 14, dalle 14 alle 22 e dalle 22 alle 6. Il compito del personale assunto dal Consorzio Agrario era quello di controllare, pesando, l’entità del carico dei camion in entrata e di ricontrollare i cassoni dei camion stessi e del rimorchio (quando c’era) una volta svuotati, dopo aver depositate le barbabietole nelle vasche di primo lavaggio.

Di notte, con la puzza – L’attività notturna era la più impegnativa perché i camionisti, effettuato lo scarico delle bietole, se ne ripartivano dal piazzale con i cassoni stracolmi delle cosiddette “polpe”. Queste, gocciolanti e dal forte odore nauseabondo, erano costituite dai residui delle barbabietole, preventivamente lavorati all’interno dello stabilimento, cotti, triturati e destinati, dopo l’essiccazione, a essere sfruttati sia come concime o, anche, come foraggio per gli animali da stalla. Così, in definitiva nostro ulteriore compito era quello di verificare anche il peso delle polpe in uscita dallo stabilimento, tra il puzzo della nafta, le esalazioni degli scappamenti, le sollecitazioni, spesso volgarmente gratuite, dei camionisti, che avevano tutti una fretta del diavolo. Ovviamente. Perché più rapide erano le operazioni di scarico e carico, più trasporti venivano effettuati. Più le polpe erano bagnate, più peso veniva caricato, più guadagno assicurato. Inevitabili le discussioni sulle precedenze, sulle pesate, sui possibili favoritismi e sulle disparità di trattamento a questo o a quello. Molti, realmente, approfittavano delle defaillances delle ore notturne, quando le palpebre dei  sorveglianti si rifiutavano di restare aperte e i riflessi si appannavano.

Lo zio della Somalia – Mi portavo appresso un prezioso cuscinotto di cuoio lavorato, che merita una parentesi curiosa per una storia tutta sua. Un mio zio era stato fra i colonizzatori della Somalia, quando Mussolini aveva deciso di allargare i confini dell’Impero oltre mare. Aveva gestito nelle campagne di Mogadiscio una “concessione”, florida azienda di esportazione,  curando la coltivazione delle banane; con esse commerciava, trasportando nelle stive delle navi “bananiere” tonnellate di caschi destinati alle mense degli italiani. Quando il regime fascista subì il suo tragico tracollo, lo zio rientrò precipitosamente in Italia, abbandonando case e averi, portando con sé, oltre al denaro rimediato nel poco tempo a disposizione, monili tipici, oggetti di artigianato locale, persino una scimmia zanziberina, minuscola e maligna come un diavoletto. Tutto facilitato dalla estrema permissività delle dogane di allora. Alla sorella (mia madre) lo zio lasciò, partendo per il nord Italia, alcune cose tra cui statuine in avorio, soprammobili, monili e cuscini sòmali in pelle che abbellirono, per anni, i divani del salotto buono di casa. La scimmia morì di polmonite pochi mesi dopo il suo arrivo in Italia.

Le dormitine notturne – L’unico superstite dei cuscini, qua e là consunto dall’uso, mi serviva, durante il periodo dello zuccherificio, da comodo e fresco appoggio di testa e braccia nei rari momenti di relativa pausa notturna. Succedeva che, con la leggera brezza delle notti d’estate, a volte mi appisolassi sul piano del tavolo. E sentivo, nel dormiveglia, come una eco di fatti lontani, le sollecitazioni, le parolacce degli autisti, le risposte dei colleghi di lavoro, il rombo dei motori degli autocarri che si allontanavano. In perenne sottofondo il ritmo pulsante dei macchinari dello stabilimento, come fosse un transatlantico già pronto per salpare, ma impossibilitato a prendere il largo. Per quanto concerne la strana sorte del cuscino (anche gli oggetti hanno spesso una loro predestinazione scontata) consideravo che il transito dalle banane alle barbabietole non dovesse essere poi tanto traumatico, viste le peculiarità nutritive di questi due prodotti della natura.

Gli appestati in treno – Il nostro capo-piazzale (quello non manca mai) era un giovanotto brusco ed energico, originario della provincia di Ancona. Non nutriva troppe simpatie per i corregionali maceratesi e non perdeva occasione per creare ingiustificati intoppi. Poi, quando finiva il turno del mattino, si “smontava” alle 14, dovevamo attendere nella piccola stazione ferroviaria di Montecosaro una locomotiva a vapore che, trascinandosi dietro un unico vagone passeggeri, transitava sbuffando circa un’ora dopo la cessazione del servizio. Inutile dire che, appena saliti nello scompartimento, si creava un vuoto immediato intorno alle nostre persone, quasi fossimo pericolosi untori apportatori di peste, o che avessimo un aspetto poco raccomandabile. Era l’acre e dolciastro olezzo delle polpe che, avendo intriso i nostri abiti da lavoro, procurava spazio e posti a sedere! Uno dei pochi rari vantaggi di un servizio sporco, scarsamente retribuito e affatto gratificante.

La corriera presa al volo – Talvolta, eludendo la asfissiante sorveglianza del “capo” e scavalcando la  recinzione, con i compagni di turno raggiungevamo di volata l’asfalto della strada provinciale tra gli sfottò e le grida d’incitamento dei camionisti. Afferravamo al volo una corriera di linea che, qualche tempo prima delle 14 – questione di minuti – faceva sosta proprio dinanzi ai cancelli dello stabilimento con il carico dei bagnanti che rientravano dopo una mattinata di mare “jò lu Portu de Citanò”. Eravamo costretti a viaggiare in piedi a causa della calca, né il puzzo acido delle polpe poteva costituire titolo preferenziale. Tra sudori, odori di creme solari, profumazioni di copertura, afrori di carne umana, si creava un miscuglio tale che anche noi si finiva per confonderci nella congerie degli effluvi estivi.

Rischio licenziamento – Di Bella o Della Bella (così mi pare si chiamasse il capetto) non gradiva queste fughe anticipate e si doveva attendere, diceva lui, il suono della sirena che annunciava puntualmente la fine del servizio. Una volta che, con mimica perentoria, ci invitava a tornare indietro, lo salutammo dal pullman con ampi gesti di palese presa in giro. Rischiammo, in quella occasione, il licenziamento in tronco; poi tutto si appianò.

L’avventura… – Molte ragazze impegnate come operaie all’interno della fabbrica, durante la pausa per il pasto di mezzogiorno, uscivano a prendere una boccata d’aria. Era il momento in cui si poteva scherzare e azzardare approcci con quelle abbordabili. Uno dei nostri tentò di affondare l’assalto e – nella circostanza – ebbi l’incarico, sorvegliando, di tenere ben chiusa la porticina a vetri del locale della “pesa”, mentre all’interno si udivano schiocchi, risatine soffocate, sospiri, dinieghi espliciti. C’erano rari clienti in giro a quell’ora e pochi erano i camion che stazionavano sul piazzale. Il sole a picco certo non invogliava a stare fermi sotto la canicola.

Prosciutto e melone – Nelle prime ore della sera, con l’arrivo della frescura, non era improbabile che si facessero abbondanti spanciate di cocomero o di prosciutto e melone, con l’accompagnamento di solenni sbevazzate di birra e vino che un camionista di Jesi si portava dalle campagne di casa. Una chitarra e un’armonica a bocca riempivano il breve intervallo prima della ripresa delle fatiche. Gli operai, in pausa di lavoro, si divertivano ad attirare i cani randagi che bazzicavano nel recinto dello stabilimento. Con maligna caparbietà e rischiando i morsi, legavano alla coda di un malcapitato bastardino una serie di lattine vuote di birra o di barattoli, poi lasciavano la bestia, che correva a perdifiato come impazzita nei cortili e tra le ruote degli automezzi in sosta. Lo spasso era assicurato per un buon quarto d’ora, finché qualcuno di cuore più sensibile, non liberava il cagnetto dalla fragorosa tortura.

Goffredo Giachini

29 ottobre 2020

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