Tutto il piceno è stato fin dall’antichità fortemente antropizzato e controllato grazie a legami tra le comunità che lo abitarono, tanto da poter dire che fosse uno Stato, nel concetto che ne abbiamo nei nostri tempi.
Lo dimostrano tradizioni parallele nel modo in cui presumiamo che la gente vivesse, mangiasse, e soprattutto, lo possiamo dedurre dall’antropologia della morte: le tradizioni funerarie, grazie anche al fatto che stanno sottoterra, sono quelle che più hanno lasciato traccia della esistenza, della presenza di popoli nel passato.
Complice una tendenza globalista volta a cancellare la storia e l’identità delle persone per ridurle a un esercito di cloni, siamo portati quasi a pensare di essere comparsi qui, ora, dal nulla, dimenticando che qualcuno ci ha fatto nascere qui, ora, e che prima ancora c’erano i nostri nonni bisnonni e così via. Cosa abbiamo inventato noi, con la nostra supponenza di saper tanto bene usare la tecnologia, piuttosto che la zappa o l’aratro?
Tornando all’antropologia della morte, per nostra fortuna sin dall’antichità l’uomo ha avuto una sensibilità: il culto degli antenati, il voler rispettare il congiunto, l’amico, da morto come da vivo, dandogli una sepoltura per conservarne la memoria e la dignità, scegliendo quando possibile anche un luogo dove i resti non venissero violati. Dopo questa premessa vorremmo spendere due parole con riferimento a un luogo di cui parlammo in modo scherzoso (ma non troppo) qualche mese fa, su appello del signor Mauro Pignani: la grotta sul Monte Francolo (foto 1) scavata nell’arenaria, poco profonda e con nicchie intonacate che secondo la soprintendenza sarebbero colombaie (La rucola n° 264).
In provincia di Ascoli Piceno ci sono altri due luoghi dove troviamo gli stessi manufatti: a Massignano, le “grotte dei Centobuchi” (foto 4-5), e a Montefiore dell’Aso, “i Grotti” (foto 2). Anche qui, come sul Monte Francolo, sono grotte scavate in arenaria, in luoghi pressoché inaccessibili, con forma di sesto acuto e dalle pareti interne piene di nicchie ogivali a base di ferro di cavallo delle dimensioni alla base che vanno dai cm 22×22 fino ai cm. 35×35 circa. Sia le pareti che le nicchie sono intonacate a protezione dall’erosione.
In alcune sono stati trovati frammenti di vetro iridescente da balsamario e cocci di vasi di età romana con pezzetti di carbone, ecco perché si ritiene “probabile” che si trattasse di colombari per la conservazione delle urnette dei cremati di quella epoca. Ma, detto così, è come la datazione delle chiese, che viene indicata dal primo documento ritrovato in cui se ne parla, ma che non dimostra la data di costruzione!
Pertanto, le nicchie potrebbero essere state usate in quel modo ancora in epoca romana ma provenienti da una tradizione molto precedente e, in quel tempo, ancora esistente; in realtà a Roma ci fu un periodo, tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., in cui si diffusero le sepolture a columbarium per motivi igienici, e scomparvero con la diffusione del cristianesimo che proibiva la incinerazione dei defunti.
Queste sepolture romane però non venivano scavate, ma costruite, a livello del piano di campagna o a seminterrato, e di dimensioni adatte a riporre le ceneri, altri oggetti del defunto, e ad apporre una targa commemorativa che sigillava la nicchia (foto 6 columbarium Villa Codini Roma). Le nicchie di Pollenza, di Massignano, di Montefiore, sono scavate, simili a quelle siciliane di Canalotto (foto 7), e ad altre (ritenute etrusche) a Sorano in provincia di Grosseto (foto 8).
Per essere ritenute colombaie nel senso di allevamento di piccioni, non sembrano avere una profondità tale da poter contenere comodamente il volatile: se fossero state per i colombi… perché non scavare un pochino di più? Troviamo anche notevole similitudine con un sito, di dimensioni molto vaste, nell’antica Giudea: si tratta del sito Unesco di “Bet Guvrin-Maresha national park” (foto 9); qui nell’arenaria di 85 grotte (sotterranee) sono state scavate decine di migliaia di nicchie, che gli storici datano III secolo avanti Cristo con l’originario scopo di alleva mento dei colombi, da parte dei greci stabilitisi nel luogo. Queste nicchie in tempi successivi furono usate anche come luogo di sepoltura, la loro dimensione è maggiore delle “nostre”, ma la somiglianza è assai evidente.
Forse sarà una nostra ennesima “ucronia”, ma dalle tracce di vita preistorica o comunque precedente al romano insistenti nelle zone dove ci sono queste grotte, si può supporre una tradizione funeraria e/o religiosa, picena o anche più antica. Non si può escludere neanche che fosse un uso di qualche nucleo di genti non aborigene insediatesi in questi luoghi, uso poi ripreso dai romani nel limitato periodo storico intorno all’anno zero. Ciò che accomuna tutti i siti marchigiani è l’abbandono e l’affido alla… cura della natura (crolli, frane e boscaglia): malgrado sopralluoghi, servizi fotografici e in video nulla ha finora smosso le autorità competenti a interessarsi alla valorizzazione e alla conservazione di questi siti.
Pubblicato su internet
A Moglie di Pollenza a giorni l’inaugurazione di una nuova area archeologica
Simonetta Borgiani
1 aprile 2021