Il romanzo storico, “La battaglia dei Campi Catalaunici” – XV e ultima puntata

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Le orde lanciate da Attila contro il nemico erano entrate in contatto con gli Alani, al centro dello schieramento “romano”, essendo tattica usuale degli Unni quella di sfondare al centro per rendere più vulnerabili ai lati le due ali nemiche, separandole fra loro. Le urla salivano al cielo ed il cozzo delle armi bianche produceva un rumore assordante, diffuso ormai in tutto l’ambiente. Gli Alani si battevano bene. Sapevano che cosa li attendeva se fossero caduti feriti o prigionieri nelle mani di quei guerrieri scatenati e selvaggi che conducevano le loro cariche rimanendo in groppa ai loro cavalli, di lì scagliando dardi con precisione micidiale. In quei momenti i 300 delle Turmae avevano iniziato l’ascesa con un vantaggio minimo rispetto ai nemici arrivati dall’altra parte ma né gli uni, né gli altri potevano rendersene conto a motivo della fitta boscaglia esistente sul colle. I legionari salivano oberati dal peso delle armi personali e dallo scudo ed era come se ognuno fosse rimasto solo con se stesso, cercando con attenzione di non mettere i piedi in fallo. Terenzio si districava abbastanza agevolmente; dimenticate per un attimo le ambasce di quel giorno di guerra, la sua mente tornò ai tempi in cui dalla natia Ricina si inerpicava leggero, destreggiandosi fra tronchi ed arbusti, sulle pendici del colle che la sovrastava, per cercare funghi o animali o per fare legna per il camino domestico. I pericoli che poteva qui trovare non erano quelli delle fauci del lupo o del dente del cinghiale, ma quelli ben più importanti del pugnale assassino di qualche figlio dell’est. Procedeva dunque con la massima cautela evitando per quanto possibile ogni rumore e tendendo l’orecchio onde percepire ogni ancor minimo fruscio. Fu così che il crack di un rametto spezzato a breve distanza lo immobilizzò vicino a un tronco. Era un amico questa volta ma l’inevitabile sospiro di sollievo si trasformò subito nel terrore del sibilo di una freccia scagliata da pochi metri di distanza. La corazza del povero legionario colpito non aveva retto alla violenza del pungente colpo e l’amico si era trasformato in un fiore vermiglio sbocciato all’improvviso ai piedi del povero Terenzio. Questi, con la forza della disperazione si scagliò con la spatha protesa dentro al cespuglio che aveva visto ondeggiare. E fu fortunato perché ora, lì in terra, si torceva nel suo sangue un guerriero nemico. Incapace di uccidere un vinto Terenzio lo osservava agghiacciato ed incerto. Fu davvero un bene che alle sue spalle arrivasse un romano che, con un azzeccato colpo di lancia, pose fine alla vita di quell’unno morente. “Tu sei pazzo, Terenzio. Non possiamo fare prigionieri, né lasciarli agonizzanti. Abbiamo una missione da compiere e le urla di questo selvaggio potevano attirarci addosso chissà quanti altri dei suoi compagni”. Mors tua vita mea era il principio ispiratore di quei disperati lì per sopravvivere o morire e Terenzio, suo malgrado, l’aveva visto in opera in tutta la sua brutalità. Ma in quei tristi momenti non era solo il “nostro” a dover fare i conti con i sentimenti oppure con convinzioni morali. Nella pianura una lotta terribile, sanguinosa e mortale stava svolgendosi con una ferocia inusitata. Gambe, braccia, teste mozzate giacevano per ovunque, di uomini di tutte le razze e di tutte le religioni in un crescendo di imprecazioni, di urla spaventose, di gemiti di morenti, di richiesta di aiuto che nessuno poteva apportare. Jordanes, lo storico goto che già conosciamo e che raccontò nel suo libro sull’origine e gli atti dei Geti alcune vicende di questa Battaglia, cita il racconto di anziani testimoni oculari che narravano di una strage così grande da riuscire a trasformare in torrente di sangue un ruscello che scorreva nei pressi. Tant’è che i feriti e i moribondi, per l’arsura, finirono per bere con l’acqua del ruscello il sangue che essi stessi avevano versato. Il racconto, forse una esagerazione poco credibile, può ritenersi invece confermato da quanto accadde al buon Teodorico, settantenne Re dei Goti, in battaglia a fianco dei Romani, che morì nel corso dei combattimenti, ma il cui corpo venne ritrovato casualmente solo dopo una ricerca compiuta rovistando sotto cumuli di cadaveri, che giacevano in terra accatastati. Per inciso: le circostanze della morte di Teodorico sono rimaste misteriose perché ci fu chi riferì che il Re, caduto da cavallo, era stato travolto dagli stessi suoi cavalieri che lo seguivano, nell’impeto di una furente carica. Venne poi fuori un certo Andagis, ostrogoto agli ordini di Attila, che sostenne di aver ucciso il Re con una freccia da lui scagliata. Ma una simile rivendicazione non sembra davvero credibile: sia perché la quantità di dardi che volteggiavano in quel cielo infuocato era tale da rendere impossibile la identificazione del loro lanciatore; sia perché la punta di un dardo mortale rimane conficcata nel corpo della vittima e nessuno ha lasciato scritto di qualcosa del genere. Non rimane altro se non pensare che già allora, per farsi sentire importanti o per ottenere qualche beneficio, c’era qualcuno che provava a vantarsi per l’uccisione di un nemico. Quella che appare più convincente è comunque l’ipotesi di un decesso naturale per gli stress subiti da un vecchio settantenne, padre di nove figli, oppure per una rovinosa caduta da cavallo per una mossa sbagliata del cavallo o dello stesso cavaliere. Sta di fatto che, quale ne sia stata la causa, Teodorico primo Re dei Visigoti morì nel corso della Battaglia dei Campi Catalaunici, nel dì venti di Giugno dell’anno 451 d.C. La Storia non dice se Attila apprese subito la notizia. Certo la morte del Re goto confermò il responso degli aruspici ed Attila superstizioso com’era, se lo seppe, prima di perdere rovinosamente la Battaglia secondo quanto gli era stato predetto, preferì ritirarsi in buon ordine nel suo accampamento fortificato. Ma a riguardo la Storia motiva anche con la sconfitta subìta dalle sue armi negli scontri per la presa dell’ormai famosa collina.

Il deposito d’armi – Abbiamo lasciato Terenzio appena uscito dalle peste nella salita di avvicinamento alla cima per assumere con gli uomini del suo reparto il controllo del deposito di riserva, creato su iniziativa di Ezio. Lo scontro armato che aveva interessato il “nostro” non era rimasto isolato. Molti dei suoi compagni avevano sperimentato nella salita altri cattivi incontri, non tutti riuscendo a superarli. Dei trecento arrivati ai piedi del colle, in cima ne mancavano almeno una decina, ma il Praefectus e il Centurione decisero di comune accordo che non era possibile andarli a cercare tanta era ormai l’urgenza di apprestare la difesa del luogo prima del possibile arrivo in forza degli Unni. Nel frattempo i genieri vennero mandati a ispezionare il nascondiglio delle armi, trovato in perfette condizioni. Tutti si convinsero che i nemici incontrati nel corso della salita erano solo degli esploratori o costituivano delle modeste avanguardie. Certamente era però da attendersi un arrivo in massa di rinforzi. Venne rapidamente eretta una catasta di legna umida, accesa con difficoltà, per effettuare la segnalazione convenuta con Ezio, che l’attendeva con trepidazione considerato il tempo ormai trascorso dalla separazione delle dieci Turmae, dallo schieramento diretto allo scontro frontale con gli Unni. Con il messaggio di fumo veniva sollecitato anche l’invio di immediati rinforzi e così Ezio, nonostante la durezza degli scontri in essere sulle pianure, diede ordine alla Legione mantenuta di riserva dietro la prima linea dei combattimenti di andare ad occupare il sito senza altro indugio. Anche gli Unni erano però arrivati in forze. Smontati di sella, subito si protesero di corsa sull’erta per arrivare primi alla mèta. Un’amara sorpresa li attendeva. Dalla cima del colle un diluvio di frecce scagliate senza interruzione di continuità frenò di colpo l’ardire dei barbari lanciati alla conquista. I Romani avevano cominciato a utilizzare le riserve nascoste e non lesinavano in particolare i pungenti pila capaci di neutralizzare gli scudi degli avversari, appesantiti ed inutilizzabili quando colpiti da quei giavellotti che si torcevano dopo essersi conficcati. La sproporzione delle forze era però enorme e gli Unni, che pure dovevano per procedere oltre scavalcare le muraglie di cadaveri che si erano create con la decimazione dei loro primi attaccanti, guadagnavano sempre più terreno. A quel punto Terenzio e gli altri videro Lupus, il Legatus legionis passato al nemico, che incessantemente spingeva all’assalto i guerrieri lanciati da Attila alla conquista del colle. Quella vista, anziché abbattere, centuplicò gli sforzi dei difensori. Il loro Centurione, mantenendo una calma irreale, aveva organizzato una catena umana che, estraendo le armi di riserva dal deposito nell’anfratto, le portava vicino ai lanciatori che instancabilmente le scagliavano abbasso costringendo i barbari a fermarsi ad ogni scarica. Ma anche gli Unni non erano da meno; viste cadere le prime schiere, avevano aguzzato l’ingegno e si servivano con sempre maggiore accortezza degli archi di cui erano dotati. Archi di dimensioni raccolte per consentire il loro utilizzo prevalentemente rimanendo a cavallo, costruiti con parti in legno, tendini e corno, divenuti a quei tempi famosi per la loro robustezza, portata e penetrabilità delle frecce con quegli stessi scagliate. In breve quei dardi assunsero il carattere di una vera e propria pioggia. I Romani si potevano difendere solo coprendosi con gli scudi, utilizzando i quali si trovarono a dover grandemente rallentare le loro azioni difensive. In pratica: la partita volgeva al peggio. Accerchiata la collina, gli Unni salivano ora da ogni lato e la Legione, inviata da Ezio a soccorso degli eroici difensori, non era ancora riuscita a sfondare per giungere sul posto. Anzi, a fronte delle ripetute cariche dei cavalieri Unni, i Legionari si erano visti costretti a ricorrere alle tradizionali difese a testuggine, generalmente usate negli assedi per avvicinarsi alle mura da espugnare e quindi proteggersi dalla pioggia di dardi nemici. Attila cominciava a pregustare un’ulteriore immancabile vittoria per i suoi guerrieri tant’è che ad un tratto lo si sentì gridare, a mo’ di novello Giosuè: “Fermati, o sole!”; difatti: nonostante la lunghezza della giornata compiendosi il giorno dopo il solstizio di Giugno, l’imbrunire, dopo lunghe ore di terribili combattimenti all’arma bianca, si avvicinava rapidamente e gli Unni sembravano prendere il sopravvento perché i Visigoti apparivano disorientati per la morte del loro Re. Ma l’ora della vittoria per Attila non era poi suonata. Torrismondo, il giovane e possente figlio di Teodorico, venuto a conoscenza della tragica morte di suo padre, riprese forza, animato da un terribile spirito di vendetta e, radunate le sue genti, le gettò di nuovo con estremo impeto nella mischia. La cavalleria dei Goti, tenuta fino a quel momento di riserva, si scatenò sul fianco indifeso degli Unni gettatisi alla conquista della collina, sbaragliando ogni difesa, costringendo i superstiti alla fuga.

Arrivano i nostri! – Terenzio era all’estremo delle forze. “Signore!” disse rivolgendo gli occhi al cielo. “Fa che almeno mio padre e Lavinia sappiano che non ci siamo arresi e che abbiamo combattuto fino alla morte per la vittoria di Roma e della nostra Civiltà”. Così dicendo si volse di fianco riuscendo miracolosamente a schivare la spada di un nemico riuscito a penetrare attraverso l’ultima fragile barriera dei superstiti trecento, degni emuli degli Spartani di Leonida alle Termopili. Infilarlo con un azzeccato colpo di lancia fu un tutt’uno, ma dopo di quello altri stavano per sortire d’incanto dalle propaggini della terra e avanzavano urlando da forsennati, folli di alcool e droga, pronti ad infrangere ogni residua resistenza avversaria. Come nel finale di ogni buon western che si rispetti, si levò alto, a quel punto, prepotente sul piano e sul colle l’inconfondibile suono del corno di guerra romano. La Legione era finalmente arrivata e Roma aveva vinto!

Il nostro racconto potrebbe dunque finire qui – Ma sarebbe davvero un peccato, perché la Storia non si ferma e varrebbe la pena di ripassarla ancora un po’. Certo: Attila, vista la mala parata, si ritirò nell’accampamento fortificato che si era preparato, facendo subito innalzare una pira per bruciare il suo corpo se i Romani avessero attaccato per catturarlo. Ma non lo fecero. Ezio convinse Torrismondo a non portare a termine la sua vendetta, con la prospettiva di tornarsene presto a casa e farsi incoronare dai Visigoti, evitando che qualche altro dei suoi fratelli, conosciuta la morte in battaglia di Teodorico, gli avesse usurpato il trono prima del suo ritorno. Ezio non attaccò dunque l’accampamento di Attila e lo fece per non distruggere definitivamente quel nemico, la cui sopravvivenza gli faceva gioco in nome del solito “divide et impera”e della esigenza di non trovarsi accanto alleati scomodi, se divenuti troppo potenti a seguito del possibile annientamento in quel momento degli Unni. La sua poliedrica visione delle cose, avendo lui mantenuto una incredibile lucidità pur al termine di così terribili eventi, gli suggeriva infatti di mantenere in vita in una sorte di obbligato equilibrio e condominio tutte le forze barbare che si agitavano dentro e fuori di quell’immensa entità in via di definitivo sfacelo che aveva il nome di Impero romano di Occidente. Mal gliene incolse perché Attila ebbe così l’opportunità di squagliarsela alla chetichella, potendo poi riprovarci addirittura l’anno dopo in Italia, mettendo a ferro e fuoco altre Città e contrade, radendo Aquileia al suolo. Ezio acquistò comunque la sua parte di gloria imperitura tant’è che, ancora ai giorni nostri, quella Battaglia viene ricordata come l’ultimo glorioso anelito di vita e di vittoria dell’Impero romano, in Occidente. Terenzio sopravvisse. C’era Lavinia che lo aspettava laggiù e… che bello far sapere anche a Giunia quel che aveva perduto con lui! Una cosa sola mancava: con le ultime luci del tramonto, quando il campo di battaglia stravolto da tutto quell’orrore sembrava finalmente quietarsi e Terenzio stava medicando le sue ferite, il rumore di un lontano galoppo, scemando, lo sorprese: era Lupus che, scampato ancora una volta, s’involava col fido destriero verso nuove avventure di cui forse un dì si saprà… ma d’altronde tutti sanno che la Storia è assai bella soprattutto perché, a forza di dover insegnare la vita a chi vien dopo, mai si ferma anche se poi sono molti quelli che non la ascoltano…

Giuseppe Sabbatini – con illustrazioni di Lorenzo Sabbatini

25 maggio 2021

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