Tre amici maceratesi raccontano le loro avventure alle terme di Castellamare di Stabia

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L’ambiente – La prima impressione non fu certo delle più edificanti. Anzi. Vecchi fabbricati con intonaci sgretolati e fatiscenti si allineavano ai lati di strette viuzze maleodoranti. Persiane come bocche sdentate. Acciottolati in dissesto e pieni di buche. E, ai bordi della carreggiata, in una teoria senza soluzione di continuità, macchine di ogni specie, parcheggiate alla bene e meglio, come un convoglio di vagoni ferroviari fermi sul binario morto. Non c’era una carrozzeria intatta. Eccone una con il parafango ridotto a carta stagnola. Un’altra con i vetri sporchi e sforacchiati. Questa con uno sportello di colore diverso dal resto della vernice, quella con il portabagagli semi aperto e serrato da una spessa corda. Al posto delle cromature solo cicatrici di ruggine.

Il motocross – E sì che eravamo in pieno centro storico a due passi dal lungomare, ombreggiato dalle palme e a ridosso del vecchio Duomo del XVI secolo, sovraccarico nelle decorazioni e negli ornamenti della facciata. Sul litorale – devastando il fondo sabbioso della battigia – avevano costruito un circuito da motocross con dossi artificiali, trabocchetti e curve viziose. Il rumore assordante dei bolidi da competizione inondava le vie del centro, tra l’indifferenza dei numerosi passanti.

Il “quattro stelle”… scarse – Era il pomeriggio di una domenica di maggio ed eravamo appena arrivati a Castellammare di Stabia per essere sottoposti a un ciclo di cure presso le locali Terme. In tre, a bordo di una scassata 127 di annata di un colore rosso spento. Stavolta eravamo destinati a un albergo, una struttura alta su una collinetta che dà verso l’interno. L’hotel era segnalato sulle pagine del Touring come un “quattro stelle” ma, alla resa dei conti, non era certo meritevole di tale classifica. Sorgeva fuori dell’abitato all’incrocio di strade che si inerpicano verso l’entroterra, verso Agerola, Gragnano e altre località di incerta notorietà.

La Polizia – Al crocevia stazionavano costantemente, specie dopo il tramonto, un paio di gipponi della Polizia i cui militi, con tanto di mitraglietta a tracolla e giubbotti antiproiettile, fermavano tutte le auto di passaggio. Anche a noi toccò la stessa sorte ma dopo un paio di giorni ci lasciarono andare. riconoscendo “Carolina” (la Fiat 127) come mezzo di trasporto di ospiti del sovrastante complesso alberghiero.

Le zanzare – Ci avevano assegnato una bella stanza  all’ultimo piano da cui potevamo godere dello stupefacente panorama della costa vesuviana. Ben presto dovemmo verificare che sia il privilegio della posizione elevata, sia la conseguente visuale paesaggistica venivano neutralizzati dagli assalti delle zanzare che – nonostante l’altezza – avanzavano a battaglioni, a schiere compatte, nel respiro carezzevole del primo imbrunire. Bisognava allora serrare le imposte e, una volta coricati, coprirsi con le lenzuola fin sopra la testa. Bruno, uno dei tre amici in “trasferta”, armato di un giornale ripiegato molleggiava sulla rete del letto come si trattasse di una pedana elastica. Da questo trampolino saltava urlando e sparava fendenti contro le pareti e il soffitto. La mira era ineccepibile e presto gli intonaci apparivano tatuati dai cadaveri degli insetti che lasciavano morendo lunghe strie di colore rosso bluastro.

Lo stabilimento termale – Le cure si facevano in uno stabilimento a circa tre chilometri dall’albergo e là ci si recava in macchina per il turno fissato alle sei e mezzo del mattino. La levataccia era compensata dal fatto che, dopo le applicazioni, avevamo il resto della giornata completamente libero. Nella struttura, locali vecchi che puzzavano di stantio, di acque stagnanti, l’igiene era una norma pressoché ignorata, gli spogliatoi erano costituiti da armadietti in ferro, tipo palestra di pugilato, dove, lasciati gli abiti, si dovevano indossare accappatoi di spugna grigiastra, lisi e con macchie. La luce pioveva dall’alto, da aperture dai vetri sporchi, strette come feritoie. Musiche a tutte volume della più scontata tradizione popolare accompagnavano in sottofondo i movimenti degli assistiti, dal momento dell’ingresso fino alla sosta forzata – dopo le cure – per la prevista fase di reazione.

Anarchia – I camerini con le vasche per le immersioni balneari erano i più disadorni e deprimenti che avessi mai visto: piccoli, stretti, divisi gli uni dagli altri da una sottile intercapedine di legno, sulla quale umidità e vapori avevano prodotto i loro deleteri effetti. Si stava isolati e, nel contempo, a stretto contatto di natiche con gli altri assistititi, in una compiacente semi-intimità tutta partenopea. Il trattamento si rivelò smaccatamente familiare; una familiarità ruffiana e teatralmente calorosa. E questo accadeva nonostante il considerevole afflusso dei malati, che si avvicendavano alle cure con una disciplina molto approssimativa, ai limiti dell’anarchia. Ognuno faceva ciò che voleva in barba a turni e regolamenti.

Le cedole e le… banconote – A inizio cure ci avevano consegnato due blocchetti composti da cedole numerate, relativi rispettivamente alle dodici immersioni in vasche di acqua salsoiodica e ad altrettanti massaggi. Le cedole andavano consegnate al personale all’atto delle applicazioni. Scoprimmo presto che l’intensità e la temperatura del bagno, come la durata del massaggio erano direttamente proporzionali alla carta moneta che l’interessato faceva abilmente scivolare in mano all’infermiere unitamente al tagliando di autorizzazione. Durata del massaggio “normale”: dai 5 ai 6 minuti, con imposizione delle mani al collo e parte della schiena. Massaggio con “olio speciale”: dal quarto d’ora ai venti minuti con interessamento delle restanti parti del corpo… continua.

Goffredo Giachini

2 agosto 2021

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