Tre amici maceratesi alle terme e le avventure divertenti a Castellamare di Stabia

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Liberi dagli impegni delle cure quotidiane, decidemmo di fare una sgambata turistica a Napoli. Lasciammo in garage l’eroica “Carolina”, che durante la settimana ci era servita per veloci scorribande nei dintorni di Castellammare (Ercolano, Ravello, Amalfi ecc.) e nella circostanza approfittammo della ferrovia circumvesuviana a scartamento ridotto. L’intenzione era di effettuare una veloce incursione in città, cercando di vedere quanto più si poteva nel più breve tempo possibile.

L’autista del bus – Ci consigliarono di prendere sul piazzale della stazione il 143, bus urbano che ci avrebbe portato nel cuore di Napoli. Saliti a bordo, ci toccò aspettare una buona mezzora prima che il conducente si decidesse a salire al posto di guida, tra i commenti e le colorite proteste in stretto dialetto di alcune comari che si erano sedute quasi sepolte sotto enormi sporte, traboccanti di generi alimentari e vestiario. Sembravano nascondersi dietro i pacchi della spesa, quasi provassero un senso di rammarico e vergogna, insieme,  per la forzata sosta del mezzo pubblico. E rimarcavano la mancanza di riguardo per “…questi signure furastiere…” – e bisbigliavano a bassa voce, ma in maniera che le sentissimo – ma che stimme a ‘spettà?Ma quanno arriva ‘stu fetentone dell’autisto?” e così di seguito…

Il menestrello di strada – Ecco che, nell’attesa, sale a bordo un tizio bardato in maniera a dir poco originale, rivelandosi subito per un moderno menestrello di strada. Indossa una palandrana scura, con un basco calato fin sugli occhi, coperti questi da un paio di lenti scure; una lunga cangiante fusciacca a strisce gli pende da una tasca del soprabito, dando una insolita nota di leggerezza all’abbigliamento funereo. A tracolla, un piccolo amplificatore a pile collegato al microfonino all’altezza della bocca, fissato a sua volta a un collare metallico. Il menestrello, dall’età indefinibile, con un cordiale sorriso rivolto a tutti presenti ed esclamando con tono da canzonettaro: “Oggi è ‘na jurnata speciale e io vogghio fare un omaggio a tutte le donne, mamme, figghie, mujère, fidanzate, guaglione e guaglioncelle…”. Pigia un bottoncino verde dell’amplificatore, parte la base e lui attacca a cantare, direi con voce abbastanza gradevole, “Rose rosse per te ho comprato staseraaaaaa!”- Nel contempo si è tolto il basco e chiede ai viaggiatori un misero obolo per la sua quotidiana… fatica. Rimediata qualche “ciento lire” abbandona poi il bus con rassegnata degnazione, su invito perentorio dell’autista finalmente al volante. E se ne va zoppicando, verso una ulteriore tappa del suo terreno di caccia: il capolinea dei bus urbani.

Spaccanapoli – Partiti, facemmo una tappa d’obbligo al Duomo per visionare le sacre ampolle del sangue di San Gennaro e quindi finimmo, come era  nelle previsioni, a passeggio lungo Spaccanapoli, a godere dell’atmosfera pregna di sentori e colori mediterranei, con i richiami musicali dei venditori ambulanti, i sipari della biancheria stesa ad asciugare, le scene del quotidiano vivere trasferite sul palcoscenico del vicolo (o vàsce). Coloratissimi e appariscenti i banchi del mercato, con la frutta sciorinata a casse, con le mille varietà di pesce plasticamente ostentato tra foglie di lattuga e scaglie di gelo triturato. Paolo, l’altro amico di avventura, seguendo la sua… ispirazione artistica, riprendeva tutto e tutti con una piccola cinepresa a tracolla e si rammaricava – mormorando sottovoce – di non poter registrare sulla pellicola  gli odori, i profumi impalpabili che sembrava aleggiassero nell’aria.

Una Vespa sospettosa – In via San Biagio dei Librai passavamo, con flemma spensierata, da un marciapiedi all’altro, da una chiassosa Pizzeria, a un negozio di pupi del Presepio, a una vetrina di cammei e di rosse composizioni di corallo, schivando il traffico, incuranti e per nulla preoccupati per la rumorosa presenza di una Vespa, con a bordo due scugnizzi senza casco, che ci tampinava da vicino. Lo scooter aveva più volte attraversato la nostra strada, scomparendo e ritornando di colpo dai vicoli che intersecano la traiettoria del corso. Lo avvertivamo alle spalle, lo perdevamo, per trovarcelo d’improvviso davanti ai nostri passi. Cominciammo a essere un po’ in apprensione per la costante presenza del mezzo spetazzante, smargiasso e spavaldo come i suoi guidatori.

Il consiglio della vecchina – A un semaforo fummo avvicinati da una vecchina appesa al braccio di una ragazza bruna e sorridente. La donna, con atteggiamento timido, ma deciso, prese il Paolo per una manica e – con fare circospetto – sussurrò alcune parole tra le fessure dei pochi denti a lei rimasti: “Guagliò… stateve accuòrte… tenìte a macchinetta co’ tutt’e duie i’ mmane e camminate a ‘mmiezzo ai cumpagne vuoste… stàteve accuorte!” Detto questo a mezza bocca e lanciando sguardi furtivi intorno, attraversò il corso e andò a nascondersi dietro l’angolo di un’ombra compiacente. La nipote seguitava a sorridere e faceva segni di assenso agitando la lunga treccia nera, quasi a muto sostegno del premuroso avvertimento della vecchia. Lo scooter, di colpo, era scomparso.

Sul Vesuvio e le inglesine – La salita al cratere del Vesuvio fu una sfacchinata tremenda. Non so perché mi venne di pensare alle inumane sofferenze del Cristo lungo il Gòlgota, gravato dalla croce sulle spalle. Saranno state le cure, sarà stato il clima di una primavera caldissima, sarà stata la fiacca cronica di poveri travet sedentari, certo è che avevamo un fiatone da asma precoce e sentivamo le gambe molli e senza energia. All’imbocco del sentiero che porta al cratere principale e che in definitiva è uno stradone rugoso e agevole, trovammo una baracca dove si affittavano per poche lire sovrascarpe di plastica, onde evitare che il fondo di residui lavici smangiasse le suole delle nostre calzature. Arrivati al bordo del cratere  scattammo fotografie in pose diverse, ci scappò di fare i cretini con due inglesine spaesate e in preda a vertigini. Paolo smozzicava qualcosa nella loro lingua. Dietro una cengia  della montagna comparve, d’improvviso, una tenda dove un improbabile cantiniere offriva per mille lire un bicchiere di vino carico e denso come sciroppo, un nettare fresco e squisito dopo l’impegnativa sgambata. Le inglesine ci fecero compagnia. Unico e irripetibile il panorama che si godeva da tanta altezza.

Il massacro delle zanzare – Capitammo a Paestum in una giornata  uggiosa e carica di foschie. Circostanza che non sminuì affatto il fascino arcano e la stuporosa fissità delle geometriche sequenze dei colonnati dei templi. Anche qui foto e riprese con la  cinepresa. Conservo una istantanea in cui, con un gioco di prospettive, fingo di mantenere ritta con il braccio teso una colonna rastremata. Nel corso di una zummata a ritroso, Paolo inciampò sulla sporgenza di un glorioso reperto archeologico e cadde rovinosamente a terra, procurandosi un bello sbrego al polpaccio. Trovandomi nei pressi, afferrai a volo la telecamera che piroettava  in aria. Al ritorno ci dovemmo alternare alla guida della “Carolina”, a causa del forfait dell’autista ufficiale che aveva difficoltà a controllare – pigiando – il pedale del freno. Rientrammo in albergo sotto un acquazzone scrosciante. Quella sera la caccia alle zanzare si trasformò in autentico massacro.

Il quartiere malfamato – Paolo, il più intraprendente del trio, aveva sentito dire che da un grossista di frutta della zona si potevano acquistare a prezzi stracciati grossi succosi limoni dalla scorza pesante, che sembravano avvolgere, con il loro acuto profumo, tutta la periferia della città, sovrastando il sapore salmastro del mare. Il portiere dell’albergo ci fornì l’indirizzo del commerciante, raccomandando cautela e discrezione, poiché avremmo varcato i confini di un quartiere malfamato e poco affidabile, evitato persino dai vigili urbani del posto e dalle forze di polizia…

Il profumo dei limoni – Dopo aver ignorato, con sommo imbarazzo, le occhiate sospettose e indagatrici  di quanti incontravamo lungo il tragitto e ai quali eravamo costretti a chiedere indicazioni, arrivammo a destinazione. Il profumo forte e penetrante degli agrumi ci servì da guida fino alla limonaia. Fermammo la 127 sotto un ampio pergolato, tra le cui maglie, coperte di verde fogliame, si intravedeva la facciata di un casale rosso, immerso nelle ombre che il sole al tramonto andava delineando. Bruno chiamò ad alta voce: “Ehi, di casa… c’è nessuno?” Per tutta risposta si presentò un massiccio cane lupo, fulvo e arrogante che cominciò a gironzolare attorno alle nostre gam be, annusando minacciosamente scarpe e calzoni. Un brontolìo sommesso accompagnava i movimenti. Nessuno aveva il coraggio di fiatare.

Il passepartout – Da dietro una siepe comparve finalmente un uomo, un traccagnotto sudicio con la coppola sulle ventitré. Zoppicava vistosamente e si poggiava a un grosso ramo a mo’ di bastone. Ci squadrò a lungo, si cavò più volte il berretto, asciugandosi il sudore che colava dalla fronte e dal collo con il polsino di una sudicia camicia. Sì e no sugli ottanta, la pelle incartapecorita e riarsa dal sole, aveva i capelli a chiazze per una evidente infezione di alopecia. Dopo un prolungato, attentissimo esame alle nostre persone, chiese cosa volessimo in un dialetto stretto quasi indecifrabile. Conosciuta la nostra intenzione di acquistare limoni (Paolo era incaricato di parlamentare) cambiò atteggiamento e modo di proporsi. Il nome del portiere dell’albergo, inserito nel bel mezzo di innocenti espressioni di meraviglia per il luogo e la lussureggiante coltura, servì da valido passepartout. Rabbonito il cane che dava segni di insofferenza, il vecchio si espresse in maniera molto più civile e disinvolta, pensando forse che avessimo intenzione di fare incetta, quasi una fornitura, degli agrumi indicati.

Dentro la limonaia – La conversazione, se così la si può chiamare, avvenne più a mezzo di eloquenti cenni mimici che non piuttosto facendo uso della parola. Il commerciante, dagli sguardi sfuggenti ed elusivi, ci accompagnò all’interno dei labirinti di una immensa limonaia, mostrandoci con palese soddisfazione, i lunghi filari degli alberi stracarichi di frutti gialli. Il profumo dava quasi alla testa. In silenzio e quasi furtivamente si avvicinò una seconda persona anch’essa in tuta sudicia e coppola regolamentare, stavolta calcata fin sugli occhi.

Il… guardiano –  E mentre il vecchio continuava a sciorinare il suo monologo nel melodioso idioma partenopeo, accompagnandolo con una efficace mimica del volto e il gesticolare delle mani, l’altra figura – inquietante per aspetto e assoluta fissità dell’espressione – girava intorno, fingendo di scansare una frasca di troppo, o di giocherellare con il lupo, dandogli pesanti pacche sul groppone o strofinandogli il bottone del naso. Mostrava indifferenza ed era invece ben vigile e attento, da sotto l’ombra del cappelluccio, ad ogni nostra mossa o reazione. All’altezza di una tasca della tuta si indovinava il sinistro rigonfio di una pistola (?)…  Come Dio volle perfezionammo l’acquisto dei limoni, belli, grassi, ruvidi nella scorza, quanto bastava per garantirne la provenienza, molto coreografici adagiati tra lucidissime foglie di serra. Quando fummo saliti in macchina con un trattenuto sospiro di sollievo, il padrone del frutteto ci salutò con inatteso calore, gratificandoci di un asimmetrico sorriso a tutta gengiva, sventolando come un cencio di saluto i quattrini che aveva ormai in mano. L’altro silenzioso spettatore era rimasto in disparte, trattenendo il cane che si era messo ad abbaiare con inusitata violenza.  

Goffredo Giachini

16 agosto 2021

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