Accaduto a Montelupone durante l’ultima guerra: i polacchi e la occupazione alleata

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Dal cupo riverbero dell’occupazione germanica si era dunque emersi passando – con operazione rapida e indolore almeno per noi – al limbo confuso ed euforico del regime alleato.

Arrivano i polacchi – A Montelupone stazionarono, in epoche diverse, soldati polacchi, poveri cristi di carnagione chiara, dagli occhi buoni e acquosi, i capelli stopposi; costoro, pur con il loro incomprensibile idioma di ceppo slavo, avevano una strabiliante predisposizione a imparare le lingue neolatine, ben diverse per etimologia e impostazione sintattica. Difatti, in pochi mesi di permanenza, già si destreggiavano abilmente nei pericolosi meandri e trabocchetti della grammatica italiana. E con i verbi trattati tutti all’infinito riuscirono a instaurare con la popolazione piacevoli rapporti di amicizia e oltre.

Accasamenti… – Molti di quei militari, pur così lontani da noi per mentalità e costume, una volta congedati al termine del conflitto, si accasarono con fanciulle del paese e delle zone limitrofe. Molte corregionali sono infatti finite a Varsavia, Cracovia o Lodz… Così come molti cognomi di indubbia origine polacca si ritrovano tuttora nell’anagrafe dei comuni marchigiani.

Balli e scommesse – Sporadicamente venivo ammesso a partecipare alle feste dei “grandi” che avevano luogo nei saloni del palazzo gentilizio dei conti Tomassini-Barbarossa, blasone illustre di una delle più antiche casate del paese, rimasta inalterata nel tempo per censo e prestigio: forse non altrettanto per disponibilità finanziarie. Comunque lo stabile altero e dignitoso c’era, la capienza dei locali pure e, sotto l’onda dei ritmi scanditi dall’orchestra “Frenesini”, si ballava, si beveva e si giocava. Andavano di moda le scommesse sui… cavalli. Si trattava, in realtà, di piccole statuine in creta colorata con tanto di fantini a casacche multicolore, che venivano fatte scivolare su una specie di tapis-roulant vibrante; in sostanza non erano le statuine a muoversi ma la pista, costituita da una lunga striscia di linoleum verde (fino a 4 o 5 metri) azionata da una macchinetta. Si facevano scommesse su questo o quell’animale, su questa casacca rossa a pallini o quella verde con croce nera. A me veniva affidato l’incarico di raccogliere le puntate e l’altro, ben più impegnativo, di azionare il piccolo marchingegno. Il salone di rappresentanza, con arazzi e tele antiche alle vetuste pareti, diventava così uno splendido ippodromo al chiuso. Mancavano sì il profumo dell’estate, lo stormire delle fronde dei platani, l’atmosfera  mondana dei grandi avvenimenti; c’erano però l’accanimento dei giocatori, l’eleganza delle acconciature femminili, l’odore dei soldi. Comunque altri invitati, più seraficamente, preferivano sedere ai tavoli a bere, conversare o giocare alle carte: interminabili scale quaranta o poker più concettuosi. Credo che molti giovani ufficiali polacchi – se ancora in vita – difficilmente potranno dimenticare la permanenza nella Marche, in queste sperdute comunità di piccoli paesi del Maceratese, così geograficamente lontani dalla loro terra, ma così vicini al loro cuore per affetto e solidarietà della gente.

 Una recita a teatro – Un pomeriggio capitarono in paese due camion con scene, costumi, arredamento e persino un motore per alimentare l’illuminazione elettrica, da tempo interrotta. Fu allestita nel teatro del paese una rappresentazione de “Il bugiardo” di Goldoni, recitato in lingua polacca, per divertire le truppe di stanza e la popolazione, invitata gratuitamente allo spettacolo. Parteciparono anche le autorità civili oltre a militari venuti da località vicine e fu quasi una gran soirée! Ebbi la fortuna di occupare un posto in platea accanto al colonnello ospite nella nostra casa, il quale si sforzò – tra le battute e le improvvisazioni dei bravi attori – di tradurre in italiano quanto veniva  espresso nella sua lingua!

Clima amichevole – Nel clima euforico dell’immediato dopo Armistizio, si instaurò tra i civili e i poveri marmittoni dell’esercito “liberatore” una sorta di complice e reciproca comprensione. I soldati – stanchi e squassati dalle vicende belliche – accettarono di buon grado premure e attenzioni (molto apprezzate quelle delle cosiddette “segnorine” presenti anche in un piccolo centro come Montelupone…) si abbandonarono, si lasciarono coccolare e viziare da una popolazione che non li vedeva come stranieri e invasori, ma provvidenziali risolutori di una situazione localmente precaria ma che, in altre zone d’Italia strategicamente più coinvolte, si presentava, tragicamente compromessa e irreversibile.

Le perske – Molti di questi militari, tuttavia, o per cattiva educazione di fondo (contadini o popolani di bassa lega) o perché saldamente sostenuti e incoraggiati dai fumi del biondo vinello locale, esagerarono nel loro modo di contenersi, arrecando inevitabili danni a cose e persone. Alle feste e alle serate ”mondane” raramente venivano invitate le cosiddette “perske” donne di mezza età, al seguito delle truppe con funzioni di ausiliarie o di infermiere, biondicce, scialbe, dai visi rubizzi un po’ come le “babuske” russe. Non erano accette ai paesani, che le trattavano con diffidenza estrema, quasi con sufficienza, quando non le sfottevano, adeguandosi a quanto si verificava nello stretto ambiente dei militari di guarnigione.

Triste parentesi – Le giornate festose ed esaltanti si trasformarono all’improvviso per la mia famiglia in una amara esperienza di angosciosa attesa. Leggo in un documento in mio possesso che, specie negli ultimi mesi di guerra, agiva anche a Montelupone il GAP (Gruppo Azioni Patriottiche) che attuò diverse azioni di rappresaglia nei confronti dei nazifascisti e dei tedeschi. In un tardo pomeriggio di quei  giorni di generale sollievo due ragazzotti monteluponesi, vestiti da “partigiani”, in tuta mimetica e un fucilaccio a tracolla, dopo aver scorrazzato per le vie del paese a bordo di una vecchia moto-sidecar e aver urlato il loro entusiasmo giovanile per la conseguita vittoria delle forze dell’alleanza, vennero in casa a prelevare il sôr Peppino: mio padre, accusato di essere stato un fervente propagandista del P.N.F., fascia littorio, Marcia su Roma, capo/manipolo aderente alla Repubblica di Salò e non so quali altre astruserie create dal regime.

L’arresto del sòr Peppino e di altri – Così, con una tracotanza e una sgarberia inusitata “lo figlio de Pennecò...” e “lo cinese” – i soprannomi con cui erano meglio conosciuti i due giovinastri – salirono le scale senza degnare di uno sguardo mamma Gigetta disperata e, spintonando quanti si intromettevano sulla loro strada, afferrarono il “fascista” e lo portarono via. Il povero papà, scortato come un criminale fino alla locale caserma dei carabinieri, fu là trattenuto insieme con pochi altri “sovversivi e collaborazionisti” tra i quali il Segretario della sezione del fascio littorio, il già menzionato conte Franchi, il sor Pippo, direttore della locale Banca e Mario “lo fattò”, tutti presunti criminali che avevano operato durante “l’efferato ventennio”. Passai con mamma un periodaccio d’inferno pieno di dubbi e incertezze, alimentati dalle solite chiacchiere di paese quanto mai deleterie in simili circostanze. Poche e imprecise le notizie che trapelavano dalla Caserma. C’era chi parlava di trasferimento dei colpevoli in una sede più consona; chi accennava velatamente a soluzioni drastiche e immediate. Il Maresciallo dei carabinieri, nella consueta capatina giornaliera in farmacia, preferì in un primo momento non compromettersi, poi tranquillizzò tutti, dicendo che era un fermo a puro titolo precauzionale. E la decisione sarebbe stata comunque di pertinenza del comando alleato…

La liberazione di sòr Peppino – Com’era accaduto in precedenza durante la occupazione con i tedeschi, anche in questa occasione  il  Comandante del presidio polacco e direttore dell’ospedaletto, venne ad abitare in casa Giachini e fu requisita la solita stanza dalla posizione strategica. Ci avviavamo verso la stagione calda e “lo prete” non si adoperava più da un pezzo, per cui non ci furono le scene della precedente esperienza con il comandante tedesco. Proprio grazie al diretto interessamento di questo colonnello polacco, riuscimmo a far liberare il sôr Peppino dalla triste esperienza della galera e – pare – dai pesanti maltrattamenti da parte dei due giovani eroi… della resistenza.

Ingratitudine paesana – Mia madre che era corsa a destra e a manca per a chiedere aiuti e appoggi ai notabili del paese, ricevendo sovente risposte dubbie ed evasive (se le riceveva), sperimentò di persona l’ingratitudine di molti e la vigliaccheria di altri e si calmò solamente quando vide papà varcare la soglia del portone di casa. Un lungo abbraccio a tre segnò la fine di un incubo, breve e doloroso.

Il colonnello polacco – Il colonnello-medico, nostro ospite, aveva un cognome impronunciabile. Mi pare fosse “Miedziviedzj” che, in italiano – precisò – poteva tradursi come “Orso”. L’ufficiale era invece di fisico minuto, ma energico e tanto per mantenere il paragone zootecnico, non tanto un orso, quanto una bertuccia ossuta e scattante. Persona educata ed amabile era l’esatto contrario del colonnello Kruger di buona memoria, uomo dalla forte personalità e dal piglio teutonico.

L’attendente Stanislao – In una stanza a pianoterra, ricavata dal vecchio magazzeno di casa, fu messo a dormire Stanislao, l’attendente, rosso di faccia e di pelo, il volto paffuto costantemente cosparso di goccioline di sudore; Stanislao familiarizzò un po’ con tutti, giocava volentieri con noi ragazzi, faceva il filo alle forosette di paese, rideva a piena gola per le cretinate più insulse, beveva a ogni occasione il vino a garganella (imitando i suoi amici commilitoni): un bianco frizzantino di produzione locale che lo metteva subito fuori combattimento dopo il primo bicchiere. Non riuscì mai, nella ginnastica lessicale del nostro idioma, a comprendere appieno la differenza fra il verbo “lavare” e “lavorare” con inevitabili equivoci e calembour da operetta.

Situazione di relativo benessere – Proprio grazie alla presenza della massima autorità militare preposta alla direzione dell’ospedaletto, in casa Giachini non vennero a mancare vettovaglie e cibo di prima necessità come la margarina (meravigliosa scoperta alimentare) – zucchero, pane a forma di pagnotte quadrangolari soffici e spugnose, la cui mollica appariva di un bianco allettante, cioccolata, caffè, crema di latte in barattoli, sigarette, scatolame di carni varie, ma, quel che più conta, medicinali già conosciuti o nuovissimi, come la preziosa penicillina.

Goffredo Giachini

Ringraziamo Federica Fraticelli per la bella immagine di Montelupone.

5 dicembre 2021

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