Il mercato di Montelupone negli anni 40/50: scene comiche e personaggi stravaganti

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L’arco dell’anno solare veniva scandito dalle incombenze legate agli accadimenti di pura matrice campestre, come può tuttora verificarsi in piccoli borghi di origine agricola. Solo l’alternarsi delle stagioni riusciva a scuotere, a tratti, gli abitanti dal quotidiano sopore esistenziale che, specie durante le nebbiose parentesi invernali, li rendeva in apparenza simili a marmotte in letargo.

La gestualità era lenta e ponderata. C’era sempre tanto tempo per fare. Ricordo il silenzio assoluto che avviluppava il paese, scandito soltanto dall’orologio della torre di piazza che batteva le ore e – con suono più acuto – i quarti. Rumori isolati, voci di mamme che richiamavano i figli intenti al gioco tra vicoli e piaggette, l’abbaiare d’un cane, echi lontani di quegli artigiani che operavano nelle botteghe fino al tramonto: il falegname (Minicì) – il barbiere (Fefè de Menghi) – il fabbro (Dondò) – il sarto (Chiribichì) –  i ciabattini (li fratelli Smoracciò ) e i pochi esercizi commerciali del centro storico di Montelupone, quali il Caffè Forastieri, il negozio di alimentari di Sereno, la cantina de ‘Ntracciaglì.

Facevano eccezione alla quotidiana ripetitività di gesti e cose, avvenimenti come il passaggio della “corriera”, torpedone blu della SAP di Potenza Picena che transitava per Montelupone in servizio tra Macerata e il mare, le animate “processioni” delle Feste ricordate con le Confraternite e la banda musicale, le “adunate oceaniche” dei paesani aderenti al Fascio durante il ventennio, con marce ed esibizioni nel cortile dove l’ingegner M. – di cui diremo tra poco – coordinava “li contadì” addetti allo scarico delle casse d’uva!

Siamo negli anni ‘40, una epoca all’apparenza spensierata, se còlta e goduta con gli occhi di un adolescente come chi cerca di raccontare certi fatti accaduti tanto, tanto tempo fa. Dopo la stasi forzata dell’inverno che costringeva i paesani a restare tappati in casa (a lavorare comunque dentro le mura domestiche) ecco il sollievo legato al risvegliarsi della bella stagione, quando si poteva parlare ancora del susseguirsi naturale dei fenomeni della natura. Uscivamo all’aperto tutti, a respirare a pieni polmoni un’aria che appariva ogni volta più tiepida e allettante.

Molti della  famiglia – specie le donne –  si trasferivano nelle  campagne, come faceva la Persè di buona memoria, a dare una mano nei pesanti lavori connessi prima alla raccolta delle fave, dei carciofi di rinomanza nazionale, e poi alla mietitura, alla raccolta e trebbiatura del grano maturo, a quella del granturco, fino alla vendemmia. Verso la fine dell’estate salivano dai campi i coloni, con i birocci stracolmi di casse d’uva, dal momento che si usava “fare il vino” nelle cantine padronali, poste negli scantinati dei due/tre palazzi gentilizi del paese. Residui di certi diritti di feudo che, nella nostra zona, si estrinsecavano ancora con la conduzione dei terreni a “mezzadria”.

Nell’occasione il sôr Enrico Franchi, maturo rampollo di una delle nobili casate del paese, giornalista e studioso del folclore, alto, dinoccolato, ormai soddisfatto nullafacente, con un trasparente monocolo incastrato all’occhio sinistro (la caramella), in una lingua che poteva somigliare vagamente a un latino maccheronico, era solito dire a noi ragazzi, matricole ginnasiali: “Tempus vindimiae bimbis cacarella venit et dicunt semper: mamma, cacare vòlo”.

Fatto sta che nel periodo “dello vellegnà” – come erano soliti dire gli addetti ai lavori – si respirava una strana atmosfera di incosciente euforia, aumentata dall’arrivo continuo dei birocci, dal rumore sordo delle grandi ruote dei carri sull’acciottolato, dalle voci di incitamento di chi “governava” le bestie; si scaricavano  le cassette di legno debordanti di raspi d’uva, nelle apposite aperture che, dal livello stradale erano incanalate fino alle vasche delle cantine. Piccoli ruscelli di colore indefinito si formavano correndo lungo i marciapiedi e nell’aria evaporava il sentore acidulo dell’uva spremuta. Noiosi moschini a nuvole invadevano spazio e respiro.

L’ingegner M., proprietario di molti ettari di terreno nella piana del Potenza, dirigeva le operazioni di scarico dall’alto di una instabile piramide di casse, svuotate dal contenuto e impilate sopra un biroccio. Non era facile guidare i buoi lenti e impacciati dal traino. E l’ingegnere, con una strana papalina in testa e un asciugamano di spugna attorno alle reni, (non indossava altro a motivo dell’aria umidiccia) urlava ordini, gesticolando e accompagnando le parole con larghi mulinelli delle braccia. Assistevano alla scena i paesani, i ragazzi in attesa  di raccogliere qualche grappolo d’uva sfuggito nello scarico, i perdigiorno con le mani nelle tasche dei calzoni rattoppati, le comari che facevano la fila dinanzi alla fontana all’angolo della torre con le brocche appoggiate in bell’ordine a terra.

Capitò un pomeriggio che, in un momento di particolare esaltazione guerresca, l’ingegnere M. sollevò entrambe le braccia al cielo, investendo di parolacce un povero colono che stava cercando di sbrogliare la manovra dei carri. E l’asciugamano cadde inopinatamente sopra la pila delle casse; il “padrone” rimase nudo come un verme nella tenue brezza  settembrina, con il solo cappelluccio di lana sulla… crapa. Una risata omerica fece da sottofondo all’incidente, tanto più che il condottiero non tentò alcunché per ricoprire le vergogne pendule e appassite. Anche i sudditi contadini ridacchiavano, con un certo ritegno, nascondendo il volto dietro i fardelli d’uva. Qualcuno azzardò l’ipotesi che quella sarebbe stata un’annata fortunata per il vino, forse per la concomitante visione del vecchio, che rievocava l’immagine di un incartapecorito satiro danzante.

Nei giorni di mercato, non era raro veder comparire  intere famiglie coloniche (il vergaro con moglie, figlie, figli, cognate e nipoti al seguito) a trainare il carretto con pollame, verdure e vettovaglie varie di cui una parte era di spettanza del “patrò”; e parte, magari, del “fattò”. La famiglia, con i vestiti della festa,  si avvicinava a piedi scalzi fino alle porte delle mura cittadine, per poi calzare, con evidente fastidio, le scarpe buone tenute, fino a quel momento, in mano come sante reliquie.

Il mercato di solito si svolgeva di domenica, prevedendo in tal giorno una maggiore affluenza di avventori, liberi da eventuali scadenze di stagione ed era costituito da un contingente di tre o quattro bancarelle, in cui gli ambulanti “spandevano” povera merce, pezze di stoffa di poco pregio, vestiario,  qualche paio di scarpe ecc. Due erano i banchi più rappresentativi e frequentati. L’uno di un artigiano del contiguo comune di Morrovalle, nel quale venivano esposti oggetti in ferro battuto, in rame, con i caratteristici paioli per la polenta (li callà), teglie da forno di rame di varie dimensioni e formato, scaldaletti, pigne e pignatte di coccio, coltelleria ecc. nonché articoli destinati alla lavorazione della terra come pale, vanghe, zappe, “maleppègghio” e falci di ogni tipo.

A tale proposito gli abitanti di Morrovalle erano ironicamente chiamati “quelli de Morro zozzo” alludendo con tale espressione alla peculiare attività di lavorazione dei metalli, che comportava una colorazione grigio/bluastra della pelle delle mani e dei volti dei calderai. Pareva che la polvere delle piccole fucine artigianali (dove mantici e incudini e sudore erano gli attrezzi più sofisticati della tecnica) avesse invaso l’intero abitato e attecchisse tra gli interstizi, le porosità del mattone vivo o le crepe degli intonaci. Il panorama del paese, per chi venisse a piedi dalla strada bianca di Santa Lucia, appariva già sporco sotto i raggi del sole. I morrovallesi, d’altronde, ricambiavano lo sfottò, recitando uno strambotto entrato ormai nella tradizione popolare. Dicevano dunque di rimando: “Le donne de Montelupò / lava li pagni senza sapò, / quanno li struscia co’ li cargagni, / è più zozzi de lo carbò”.

Un po’ quel che succedeva nei confronti degli abitanti di altri piccoli centri confinanti, con i quali esistevano atavici attriti o beghe campanilistiche di origine remota; a esempio Montecosaro e Potenza Picena, già denominata ai primi del secolo Montesanto. Riferendosi all’indole diciamo bislacca dei primi, si era solito dire: “Montecò, Montecò, se non è matti, non ce li vò”. Mentre per identificare quelli di Potenza Picena bastava alludere a “li fasciolà de Montesanto” forse in relazione alla particolare coltura di tali prodotti praticata in quel comune. Ma le interpretazioni dei cosiddetti “blasoni” popolari sono tuttora le più diverse e imprevedibili.

L’altra bancarella più chiassosa e intrigante dal punto di vista prettamente folclorico era senza meno quella gestita da Adina de Carola, una fruttivendola (“vinniricola”) dotata di un pittoresco scilinguagnolo e di una straordinaria fantasia nel decantare la propria merce. Sempre efficace durante la settimana – la sua era una postazione fissa a fianco del Palazzetto del Podestà – la domenica, forse per l’inusuale incremento della platea di spettatori, diventava irresistibile. Ricordo che, all’epoca dei cocomeri, Adina schierava una lunga serie dei succosi palloni spaccati a metà,coprendoli alla bene e meglio con una antigienica garza acquistata in farmacia a prezzo d’ingrosso.

Intorno al banco bivaccavano con furia, mosche, tafani e vespe.  Più tardi venne l’innovazione delle vetrinette da esposizione, ma gli insetti erano sempre implacabili. A richiesta dell’acquirente la donna effettuava il cosiddetto “tassello” incidendo la spessa buccia dei poponi ancora intatti; infilzava con la punta del coltello il pezzo abilmente intagliato e, sollevandolo sopra la testa, gridava con una voce stentorea: “Che róscio, che róscio… va a fòco Tripoli…”. Evidentemente le imprese delle sfortunate truppe italiane in terra d’Africa avevano lasciato un segno. Perlomeno nella polpa delle angurie.

Poi, come succede nella favole, questo mondo incantato, trasognato, fu di colpo spazzato via, quasi fosse un effimero castello di sabbia, da una improvvisa maligna tempesta di vento. Nuvole nere, che assumevano di solito l’aspetto sinistro di formazioni di rombanti “Fortezze volanti”, oscurando tristemente il cielo, a portare altrove distruzioni, lutti, dolore e morte. Cose che purtroppo dovemmo sperimentare indirettamente per la presenza in paese di un Ospedaletto militare allestito dall’esercito tedesco nei locali delle vecchie Scuole Elementari.

Rumori, sentori, immagini sfumate si alternano nella memoria: le ambulanze, le barelle con poveri corpi straziati, i lamenti, l’odore penetrante del cloroformio per le anestesie, gli ordini impartiti con voci gutturali. Una evenienza che, fortunatamente, potremmo dire, sfiorò la comunità senza ulteriori deleterie conseguenze, a parte angosce e timori. Una bomba d’aereo colpì una casa di campagna; un proiettile vagante il tetto di una chiesa del centro. La guerra un giorno finì. E arrivarono in paese i cosiddetti “Liberatori” di cui avete già letto.

  Alla fine del secondo conflitto mondiale, mi trasferii in città con la famiglia, per motivi connessi al lavoro e allo studio, come ebbi a narrare in precedenti occasioni. Mi piace chiudere questo breve racconto con una citazione tratta da Cesare Pavese. Dice dunque il narratore: “Un paese ci vuole non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei, resta ad aspettarti”.

Goffredo Giachini

27 aprile 2022

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