Un popolo, più che dimenticato, nascosto alla storia: Popunis Nir, questo sconosciuto

Da quattro e più mesi sui social e sulla stampa locale occhieggiano argomenti della nostra storia medievale, come se solo questa fosse distintivo e importante bagaglio culturale che ci proviene dal passato e, per questo, ha costituito le fondamenta del nostro presente.

Sarà forse perché un convegnone di specialisti di storia indicava nel titolo solo i secoli dal Mille al Milleduecento, un minimo periodo per i tempi storici. I protagonisti a scala europea di quei secoli sono i Salii ma, secondo quanto pubblicato fino al 2015, se Carlomagno, come scoperse don Carnevale non viveva in Renania, ma a San Claudio di Corridonia, se i Franchi non erano germanici come storia ufficiale vuole, e i Carolingi vivevano nelle Marche, nessuno dei prosecutori delle tesi di Carnevale propose una spiegazione, per me logica, delle loro origini etniche, perché il popolo egemone nell’Alto Medioevo non poteva essere un gruppo di emigrati da -non si sa bene dove- capitati per caso qui da noi, e la questione delle origini, assolutamente legata alla loro cultura  un argomento da sottovalutare.

Mi sono posto il quesito: “I Salii chi erano davvero?”. Trovai una risposta soddisfacente ed esposi per la prima volta la mia tesi sull’origine picena dei Franchi nella pubblicazione “Francos, la storia da riscrivere” nel 2015, saggio depositato, come vuole la legge, nel deposito legale della Biblioteca Nazionale la cui data fa fede in merito. L’universo della letteratura storica, almeno fino a quel momento, voleva i Franchi Salii originari dell’Olanda come da tesi tedesca oppure  li voleva Merovingi della Gallia, come da tesi francese. Don Giovanni Carnevale nella sua visione iniziale pubblicò che essi giunsero nelle Marche dall’Aquitania, già come Franchi, nel primo quarto del VIII secolo, accettando anche che fossero degli illetterati che si affidavano ai chierici romani per la burocrazia, come proposto dai tedeschi.

Mentre scorrazzavo per i colli marchigiani a cercare le tracce fisiche dei quattrocento monasteri benedettini che, come don Otello Gentili scrisse, punteggiavano il paesaggio medievale marchigiano, continuavo a chiedermi come i Franchi, che correttamente e coraggiosamente il professor Carnevale mise in Val di Chienti nel VII secolo, in quanto usano praticamente da sempre il Latino come lingua madre, avessero potuto fare di un idioma centroitaliano l’espressione della loro cultura. Nella storia dello scibile umano non è mai esistito un popolo egemone che si sia adattato ad assumere come proprie lingua, cultura e anche mitologia degli sconfitti che ha dominato.

Verità che ho constatato anche nella mia professione in giro per il mondo: chi ha i soldi e quindi il potere, obbliga gli altri ad ascoltarlo nella sua lingua. English docet. Sidonio Apollinare, vissuto nel IV secolo, scrive che i Franchi, al loro apparire nella scena Europea, già si esprimevano in Latino, e per me era inaccettabile che secondo storiografia si fossero “latinizzati” per frequentazione marginale dei servi di un latifondista romano a Soissons come anche noti accademici italiani hanno scritto. La mia prima ipotesi, condizionato dalla storia studiata a scuola, fu pensare l’arrivo dei Franchi dalla Germania nello stesso periodo delle “invasioni barbariche” cioè  nel V secolo, pressappoco quando storia dice scesero i Goti. Non avevo, né avrei potuto avere ragionandoci su oggi, alcuna seria prova, e siccome la Storia non si dovrebbe scrivere con le opinioni senza basi, provai a vedere che effetto poteva fare un romanzo storico con personaggi inventati ma in uno scenario culturale rigorosamente storico.

Scrissi “Cancellati dalla Storia”, le vicende di una tribù che scende dal Nord nel Piceno nel V secolo e lì, a contatto con la cultura romana (qui c’è stata solo Roma per gli storici) si latinizza in due secoli per essere pronta a far scrivere in Latino la Lex Salica al Carlone. Un romanzo, perché non avevo prove, ma ipotesi di larga massima che con gli episodi del racconto provavo a verificare come fattibilità. Le portanti della mia ricerca erano le architetture, la cultura materiale, e la cultura sociale ovvero la lingua e le abitudini popolari, tratti distintivi di un popolo che non si possono cambiare semplicemente scrivendo un testo postumo di storia con spiegazioni inconsistenti.

Fino al giuramento di Strasburgo a metà IX secolo, nei documenti dei Franchi esiste solo il Latino. Accettare che i dominatori d’Europa che ricostituiscono l’impero Romano (Sacro viene aggiunto dopo secoli dagli storici) si facciano scrivere la loro legge dai giureconsulti dei conquistati, solo perché parlar Latino è figo e loro non vogliono essere da meno, mi è sembrato puerile. Puerile forse, ma efficace quando non c’era internet, e soprattutto era necessario per gli storiografi spiegare perché la Legge Salica è solo in Latino, perché, altro caso unico al mondo, non c’era alcun altro documento di leggi franche, e la legge Salica emendata da Carlone è stata considerata una valida fonte di diritto ancora tirata in ballo fino al Millecinquecento.

Anziché eccezioni ho considerato le spiegazioni degli storici come forzature per la ragion di stato. Pipino, Carlomagno, Ludovico, sono Salii e sono vissuti qui per prove ineluttabili di tutti i generi, compreso il vino cotto, ma nessuno ha investigato sull’etimo di questo nome: “Salii”. Ho fatto le mie ricerche percorrendo il tempo a ritroso e sono finito alla Venere di Frasassi e al Ciottolo di Tolentino, quando, forse già diecimila anni fa, i progenitori dei Salii e dei marchigiani d.o.c. coltivavano la terra e si chiamavano Popuni. Ho intravisto e poi ho avuto sempre più conferme che questa Regione ha avuto un ruolo ombelicale nella cultura protostorica e la sua evoluzione è stata un continuum progressivo fino a noi, senza determinanti interventi di altri popoli “colonizzatori”, neppure i Romani. Cercherò, da qui in poi, di sintetizzare alcuni argomenti misconosciuti della protostoria che tratto ne “Il Piceno, Storia e Cultura”, per dare un po’ di consistenza a una storia, scritta nei lasciti di cultura materiale, negata fin dalle sue origini.

La gens Salia è stata nascosta alla storia perché se Carlomagno era un Salico e qui per la ragion di stato non ci doveva essere (ma da Carnevale in poi è tornato), non potevano certo starci i Salii suoi progenitori, lasciando tracce inconfondibili  negli strati archeologici fin dall’Età del Rame. Gli archeostorici infatti hanno raccontato la protostoria che si legge nei musei come prodotto degli Umbri, dei Sabelli, degli Etruschi e dei Magnogreci, tutti dall’altro lato dei monti. Fino a qualche anno fa, nelle pubblicazioni di divulgazione, i Piceni erano considerati pastori arretrati e le meraviglie trovate nelle loro inumazioni tutti oggetti provenienti dalla Grecia o dall’Etruria.

Spiegazioni in antitesi con le leggi sempiterne dell’economia, in quanto se poveri pastori, ammesso che non sapessero fare le cose che possedevano, le dovevano comprare, ma con quali soldi? Moltissimi fra gli oggetti ritrovati costavano una fortuna: avori, oro, uova di struzzo cesellate, ambra in gran quantità, tutti beni esotici che arrivavano qui, accompagnati da una infinità di terraglie da mensa importate dalla Grecia, come oggi le importiamo, perché low cost, dalla Cina. I mercanti Greci, Fenici ed Etruschi non erano certo Onlus che venivano a portare doni preziosi a dei sottosviluppati in bolletta. La storia non può negare l’esistenza delle leggi dell’economia anche nel tardo Acheuleano, sarebbe un’altra eccezione come le precedenti. 

Uovo di Pitino

Invece, lasciatemi dire, eccezionale è la storia della civiltà picena che mi si è rivelata dalla cultura materiale, dalle memorie popolari, e dalla rilettura di una gran quantità di documenti sottovalutati, non per ignoranza, niente affatto, ma per un lucido disegno politico iniziato sette secoli fa, che dovrebbe essere rivisto perché acqua passata non macina più. I tesori d’arte oggi sono considerati “Beni Culturali” e tutti sanno, non solo i giuristi, che “bene” è un concetto inscindibile da un valore economico riconosciuto. Va da sé che il Bene Culturale è da conoscere, godere e sfruttare dalla popolazione perché patrimonio collettivo. L’economista Pareto scrisse che la prima prerogativa di un Bene è l’essere conosciuto. Ci provo a interessarvi, come sono stato interessato io, dal solo stimolo della curiosità intellettuale di un ricercatore in pensione.

Medardo Arduino

28 agosto 2024

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