Per parlare degli aborigeni centroitaliani dovremmo iniziare con Sandrone, l’uomo con la coda ritrovato nella miniera di lignite di Monte Bamboli presso Grosseto, risalente pressappoco a otto milioni e mezzo di anni fa.
Gli episodi più importanti, perché ci parlano di un uomo “sapiens” molto vicino a noi come pensieri ed emozioni, sono la statuetta antropomorfa della Venere di Frasassi, di circa ventimila anni fa, reperto importante perché è l’unica delle piccole statue, che rappresentano la femminilità, ritrovata dove è stata realizzata, mentre l’altra decina di esemplari europei sono stati fatti molto distanti da dove sono stati ritrovati. Alla Venere ricavata da una stalattite fa compagnia, al museo di Ancona, una donna con la testa di lupa graffita sul “Ciottolo di Tolentino” che risalirebbe ad almeno una dozzina di millenni fa. La carrellata continua con la stele di Mogliano, che è graffita con attrezzi in uso più o meno fino al Bronzo Medio. Una Età in cui scrivevano i Fenici e gli Egizi e forse i Greci ancora si esercitavano a fare le aste e studiavano il sillabario, perciò a quei tempi non hanno portato qui da noi la loro cultura, come si legge nei libri, perché ce n’era già una bella e sviluppata più della loro.
Questo è il punto critico della questione del Piceno arcaico che occorre rivalutare. Una convinzione maturata nel Settecento ha voluto che (“ex oriente lux”) tutto ciò che è cultura provenisse dall’Egeo, ma considerazioni più attente alle sempiterne leggi dell’economia e della logistica ci dimostrano una realtà investigabile in modo differente, che descrivo nel saggio “riassuntivo” della questione della nostra storia: “Il Piceno, storia e cultura”, frutto di una dozzina d’anni di ricerche a tempo pieno. I nostri musei archeologici espongono una impressionante quantità di reperti della preistoria e protostoria, i più interessanti, quelli manufatti dall’Età del Rame a quella del Ferro, grosso modo da cinquemila a duemilacinquecento anni fa, ci dimostrano una grande ricchezza di risorse umane e di creatività. Se leggiamo l’unico libro divulgativo recente, quello dell’etruscologo Alessandro Naso che ha per argomento e titolo le genti di questa regione, “I Piceni” (Longanesi & C. Ancona 2000), apprendiamo che essi vivevano in “..condizioni di maggiore arretratezza [rispetto alla fertile Etruria] meno sviluppate e basate sulla pastorizia” (pag. 94). Addirittura si è scritto che i Piceni, per avere città cinte da mura hanno dovuto attendere l’arrivo dei Romani.
Queste cose si possono leggere già sulle pubblicazioni di qualche secolo fa, quando l’archeologia non era che il rischioso passatempo di qualche tombarolo e gli eruditi pensavano il passato come raccontato dai testi classici o dai celebratori dell’ellenocentrismo e della romanità. Erano opinioni derivate da convincimenti neoclassici perduranti in Età barocca, quando una persona poteva dirsi “di cultura” solo se conosceva un po’ di greco e di latino. Tali situazioni hanno portato i primi archeologi a vedere solo prodotti del Levante mediterraneo nei manufatti che gli scavi dei cimiteri piceni ci restituivano, anche se l’oro, l’avorio e l’ambra non vengono dalla Grecia.
Dimentichi della parola commercio, ovvero scambi di partite di beni di valore equivalente, questi eruditi hanno voluto vedere nelle inumazioni nostrane solo prodotti “made in Greece” consolidando il dogma “se è bello è greco e se è greco è bello”. Sommando i due assunti, quello della condizione dei Piceni e quello dell’ellenocentrismo del bello, si arriva alla conclusione che gli oggetti manufatti che continuamente emergono dai cimiteri piceni (dei pastori arretrati) sono di conseguenza doni munifici dei Greci. Perciò dovremmo considerare la patria di Ulisse e Agamennone come una Onlus, abitata da un popolo “no profit” i cui operatori dopo un lungo viaggio per mare venivano a elargire doni preziosi a dei sottosviluppati che certo non li potevano pagare a ciauscolo e sapa.
Visto che il mondo non andava e non va così, ho cercato di verificare una alternativa più vicina da sempre alla realtà delle società: l’esistenza del vero commercio, e ho cercato la possibile consistenza materiale degli scambi, perché, è evidente nelle vetrinette dei musei, qui da noi, già prima di Roma, erano in uso le terraglie da mensa di produzione greca dipinte rosso e nero. Tale ricerca mi ha portato molto indietro nel tempo, e vi spiego perché. In cinque città odierne: Ascoli, Fermo, San Severino, Osimo ed Ancona ci sono lacerti, anche se minimi, delle cosiddette “mura ciclopiche” o “megalitiche”, cinte erette utilizzando grossi blocchi di pietra locale squadrati e giustapposti a secco. Sono piccole emergenze di almeno tremila anni fa perché qui da noi l’attività umana non si è mai interrotta, le città sono cresciute sulle testimonianze di epoche precedenti, le cinte urbane si sono allargate e poi scomparse come tali, lasciando ricordi solo dove era più conveniente riutilizzare che eliminare, oppure, come a San Severino, l’antica Septempeda, l’abitato si è spostato più in alto lasciando all’interramento progressivo le porte della sua cinta megalitica, venute recentemente alla luce.
Mura di questo tipo nello Stivale sono esistite finché qualcuno, circa otto secoli a.C., si è accorto che la terra grigia cavata a Pozzuoli, se ridotta in farina e mescolata con acqua, induriva e ritornava consistente come quando era roccia. Un favore della zona vulcanica campana che ha cotto la roccia trasformandola in “cemento” noto come “pozzolana”, con cui fare la malta idraulica. Da quel momento (storico) è cambiato il modo di erigere mura e palazzi, ma di questo ci occuperemo più avanti. Ora l’interrogativo è: perché nelle Marche c’erano città murate più di mille anni avanti Cristo?
La risposta credo di averla trovata nella particolare orografia del territorio. La regione è “lunga” circa 200 km per meridiano e larga mediamente 65 km, ma caso davvero particolare è solcata da ben tredici fiumi che scendono da circa 800 metri di altitudine al mare, quindi con una rilevante pendenza percentuale rispetto ai grandi fiumi del resto d’Europa. Con questa pendenza e la relativa corrente, i fiumi marchigiani vanno per così dire dritti al mare, senza i grandi meandri dei lenti fiumi delle grandi pianure. In passato, senza gli argini artificiali che cercano di tenere i fiumi nel loro letto, coltivare nella Pianura Padana, del Tevere o del Volturno, seminando abbastanza vicino al fiume per poter irrigare, esponeva al rischio se non alla certezza che un diverso regime di precipitazioni l’anno dopo facesse straripare e facilmente deviare il fiume dal suo percorso, il che significava la fame certa, infatti le piane dei grandi fiumi sono sempre state luoghi di pastorizia. Ma non nelle Marche. I fiumi della regione possono sì straripare, ma non creano particolari pericoli se non in casi eccezionali, perciò l’agricoltura era possibile ed è stata l’attività che ha differenziato i Piceni dai pastori delle piane dei grandi fiumi.
Coltivare, è ben noto, consente di produrre un notevole surplus rispetto alle necessità alimentari di chi coltiva. Come in Mesopotamia e in Egitto, anche qui nascono i centri di raccolta delle eccedenze cerealicole e agricole in genere, in Medio Oriente si conservano nel palazzo reale-città-magazzino, qui da noi in depositi nelle cinte megalitiche delle summenzionate città. I cereali erano conservati in grandi doli di terracotta interrati fino al collo, tracce dei fondi dei quali, incollati al terreno, si sono ritrovati negli scavi della Ascoli più antica. È noto che l’agricoltura intensiva, il cosiddetto settore primario, col surplus alimentare ha permesso la specializzazione delle attività manifatturiere ovvero del settore secondario, e proprio le mura urbiche megalitiche ne sono la testimonianza, ma per gestire in modo coordinato queste due attività hanno preso consistenza le attività di supporto organizzativo: sacerdoti, sciamani e guardie armate per la custodia delle scorte, cioè il “terziario”, dando vita a una civiltà complessa.
Tale evoluzione, che sappiamo parallela in luoghi come l’Anatolia, la Mesopotamia e l’Egitto, è difficilmente leggibile qui da noi, salvo casi decisamente fortunati, perché l’aratro ha lavorato da millenni fino a oggi a dissodare e continuamente obliterare queste testimonianze, il Ciottolo di Tolentino è stato trovato perché era a 3,15 m di profondità. Le città picene si sono perciò ingrandite per ospitare i magazzini delle scorte di materiali per il settore manifatturiero ed è nata la produzione di oggetti metallici che si ritrovano quasi ogni volta che la pala meccanica scende sotto il metro. Ho letto che i prodotti in leghe di rame di produzione centroitaliana erano assai apprezzati nell’Atene di Pericle e guarda caso, le spade falcate che armavano i fanti di Alessandro il Macedone hanno, nelle icone e nelle ricostruzioni storiche, la stessa forma di quelle picene, molto più antiche, che troviamo in tutti i nostri musei. Così tante che per lungo tempo nei saggi degli archeologi Piceno era sinonimo di guerriero.
Manufatti di metallotecnica picena erano scambiati con metalli preziosi, avorio, ambra del Baltico, cibi e tessuti esotici, senza dimenticare le terraglie da tavola decorate rosso e nero, erano le merci che anche i mercanti greci venivano a scambiare con i prodotti dei Popuni, che i Romani chiameranno poi Piceni. Purtroppo non ho trovato alcun saggio che tratti di indagini di laboratorio sulle tecniche di produzione di questi oggetti metallici nostrani, specie di quelli in acciaio, sempre etichettati “di ferro”. Non ci sono solo i prodotti a testimoniare di questa civiltà evoluta, come ovvio, siccome hanno avuto la preminenza i Romani (sul perché ne accennerò in altri articoli), gli autori classici hanno inventato storie di comodo su un picchio svolazzante. Io mi baso invece sul fatto che, come oggi esistono le organizzazioni di categoria per le varie compagini della società, Confindustria, Confagricoltura, Confcommercio ecc. a quei tempi c’erano i numi tutelari, divinità rappresentanti di ogni categoria, che formavano un pantheon speculare della società dei vivi.
Qui da noi ab antiquo c’erano Cupra o Sibele, la madre terra, e Saturno, sempre rappresentato con un falcetto in mano. I mitologhi che si interessano della romanità si sono dimenticati che Saturno aveva un figlio, pure lui un dio, di nome Picus Sterco, come ci ricorda Goffredo da Viterbo, perciò il grembo di Cupra era, alle origini, fecondato da Saturno il mietitore che poi ne raccoglieva i frutti, successivamente Pico, suo figlio, da buon agricoltore esperto stercorava i campi per un miglior raccolto. Agricoltura, città-magazzino, campi concimati, i Popuni adoratori di Pico e perciò “Piceni”, poi arriva il settore manifatturiero secondario e il pantheon si amplia con nuove figure, alla prossima puntata.
Medardo Arduino
9 settembre 2024