Autunno, tempo di vendemmia , di vino, e di botti e tini di ogni tipo e misura: l’uva sta maturando e mi piace ricordare uno stupendo artigianato.
Ora tutto fa parte della industria più meccanizzata. Non so se nelle Marche ci sono ancora i piccoli artigiani che costruivano botti e tini. Ricordo quando nelle fiere arrivavano camion carichi di botti di ogni grandezza e mi affiorano alla mente anche le trattative a voce alta e i contratti fatti con una stretta di mano.
Le botti e i tini erano capolavori fatti a mano da artigiani esperti, un misto di falegnami e fabbri. Scelta del legno, rifilatura, sagomatura, piegatura, tostatura, assemblaggio, cerchiatura, erano vocaboli ben conosciuti da chi si intendeva di botti. Quanti termini oramai sconosciuti, vero? Fare una botte era impresa artigiana di alto livello. Era una impresa anche assai curiosa: sapete che la piegatura delle doghe veniva fatta posizionando un braciere al centro della gonna (circonferenza di doghe) per favorire la penetrazione del calore? Le doghe venivano anche bagnate per poter aumentare il calore interno.
La scelta dei legni era molto attenta perché essi rilasciano i tannini che rendono particolare un vino. Oggi, nelle cantine industriali vigono diversi orientamenti; gli americani tendono a volere botti particolarmente bruciate per avere una cessione importante di profumi dolci e vanigliati, mentre la scuola europea preferisce botti a media tostatura per avere una minore cessione di questi elementi e un invecchiamento più lento. Buona parte dell’apporto aromatico delle botti al vino deriva proprio dall’operazione precedente. Il calore generato distrugge e volatilizza composti aromatici fondamentali per il liquido che si andrà a mettere nella botte.
Di artigiani bottai marchigiani ce n’è ancora qualcuno, e certamente nei laboratori sono arrivate le macchine, quelle che servono solo a fare più presto ma ciò che conta, per il risultato finale, è ancora l’abilità manuale. Il bottaio era persona assai abile, padrone di un mestiere che s’imparava con anni di pratica e con attenta osservazione. Le doghe delle botti erano fatte a mano pezzo per pezzo, con la giusta curva e il giusto spessore, con la certezza poi che appoggiandole una all’altra non avrebbero lasciato luci, aderendo perfettamente.
Una volta pronto il legno era il tempo delle cerchiature in ferro che chiudevano le botti perfettamente, con la dovuta bombatura centrale, studiata e calcolata per esperienza. Nelle botti la curvatura del legno si ottiene asportando il legno superfluo con sega, pialle, scalpelli, “sgorbia” e raspa. Le doghe erano realizzate con legno correttamente stagionato. Secondo l’antica pratica le doghe, per l’assemblaggio, venivano curvate a mano con l’acqua bollente. Una volta per i contenitori (botti e tini) il legno più usato era quello di larice, di castagno e rovere italiano, ma oggi è tutto legno di importazione. Non viene usato il legno delle nostre querce perché troppo duro. Una volta, quando non c’era legno estero usavano quello nazionale e, per ammorbidirlo e stagionarlo, seppellivano le tavole sotto il letame.
Cose di un altro tempo e di un altro mondo, quando la fretta non andava a discapito della qualità e uomini pazienti e abili erano padroni del loro mestiere. La gente di campagna non poteva fare a meno di questi contenitori, di cui vi sto parlando, usati non solo per il vino ma anche per il mosto in fermentazione, per il trasporto delle uve, per lo stivaggio o il trasporto dell’acqua potabile. Grande era l’assortimento di botti ma anche di tini, tinelli, mastelli, bigonci. Tutti oggetti che molti hanno visto impolverati posteggiati in qualche angolo della cantina. Pezzi di storia della famiglia che spesso danno fastidio ai giovani che hanno trasformato le cantine in garage.
Alberto Maria Marziali
14 dicembre 2024