Ho scritto più volte, da un decennio in qua, che la caratteristica più importante della civiltà picena consista nella produzione di manufatti metallici e in particolare di acciaio; col quale si producevano armi, spiedi, manici di pentole, graticole, morsi per cavalli, ruote per bighe e altri oggetti di uso quotidiano.
So di ripetermi, ma saper produrre acciai (che sono notoriamente una lega di ferrocarbonio) non era una cosa affatto semplice come arrostire un minerale rameoso e poi fonderlo in un piccolo crogiuolo per farne oggetti minuti, oppure spianarlo fino a uno spessore di qualche millimetro e poi imbutirlo per farne una pentola. Il rame, si sa, è uno dei metalli più duttili e malleabili che utilizzi la tecnologia manifatturiera, basta pensare ai fili elettrici. Il ferro invece è più difficile da lavorare: fonde a una temperatura più alta del rame di quasi cinquecento gradi, valore difficile da raggiungere col carbone di legna e ha il pregio-difetto (dipende dal punto di vista) di combinarsi col carbonio spontaneamente, quando entrambi sono incandescenti, producendo una lega durissima e altrettanto fragile nota come ghisa.
La ghisa ad alto tenore di carbonio servirebbe a poco per la sua fragilità e non lavorabilità, ma riducendone la percentuale fino circa al 2%, si ottiene una lega con alte capacità tensili e meccaniche, proprietà ben superiori, già nell’antichità, ad altri metalli d’uso corrente e in particolare alle leghe rameose che lo hanno preceduto nella storia della tecnologia. La lega a basso tenore di carbonio si chiama Acciaio e, a vari titoli ovvero percentuali, legata anche con altri metalli quali nichel, cromo, molibdeno, è la più usata dal genere umano fra la gamma di metalli che madre natura ci offre. Passare dalla ghisa dell’Altoforno all’acciaio non è una cosa semplice neppure oggigiorno, era decisamente difficile, pressappoco una decina di secoli avanti Cristo, sia fondere il minerale ferroso sia trasformarlo poi in manufatti d’acciaio mediante la necessaria decarburazione delle ghise fino alla voluta bassa percentuale di carbonio.
Più o meno tutti sappiamo che gli Ittiti, un popolo anatolico misconosciuto fino all’inizio del secolo scorso, sconfissero i potenti Egizi nella battaglia di Qadesh perché armati con spade d’acciaio. Disporre di questo metallo è stato perciò un grande punto di merito nella storia delle antiche civiltà, innanzitutto perché il saperlo fare non s’impara dall’oggi al domani, poi perché procura grandi vantaggi economici il produrlo e venderlo a chi non lo sa o non lo può fare. Le parole di questa prefazione, secondo me sono sufficienti a innescare innanzitutto la curiosità sull’aspetto tecnologico delle antiche civiltà centroitaliane e poi a mettere in evidenza con pochi concetti l’estrema importanza che rivestono i molteplici e diffusissimi manufatti in acciaio fucinato che possiamo ammirare nei musei archeologici marchigiani. Si! ce ne sono moltissimi e sono quegli oggetti bruttini, di colore marrone scuro e butterati in quanto ossidati e corrosi dall’acqua penetrata nelle tombe, ma se li cercate nelle guide o nei cartellini didascalici delle vetrine dei nostri musei, non ci troverete la parola “acciaio” ma bensì il termine “ferro”.
È vero che il carbonio è in quantità modestissima rispetto al ferro, ma è proprio questo che fa la differenza ed è il laborioso e difficile modo di raggiungere questa piccola percentuale che qualifica il livello tecnologico di una civiltà rispetto a un’altra. Basta pensare che gli addetti ai lavori hanno differenziato le varie epoche dell’evoluzione umana proprio con i nomi dei materiali tecnologici utilizzati: abbiamo infatti le Età della Pietra, poi del Rame e del Ferro. Capisco che la lega acciaio, sempre brutta perché ossidata e corrosa, priva del fascino verdolino delle fusioni a cera persa in bronzo, sia meno piacevole allo sguardo e soprattutto non possa richiamare lo sfoggio delle conoscenze sulle nomenclature dei manufatti. Quelle nomenclature tratte dai testi degli autori greci che sembra qualifichino la preparazione e la competenza di quei laureati in lettere classiche che ne fanno continuo sfoggio anche se si tratta di oggetti di produzione nostrana con un nome italiano preciso e chiaro anche alla “cultura di massa”.
Ritengo però che, nel panorama degli studi classici e delle relative metodologie “scientifiche” che oggi vengono continuamente richiamate come prassi del lavoro appunto degli archeologi, qualcosa di più che le parole della introduzione di questo mio sfogo liberatorio, potrebbero forse essere spese dai docenti degli Atenei di Stato sul tema. Dovrebbero farlo per portare all’attenzione dei futuri nostri archeologi, gli unici delegati per legge a valutare e conservare il nostro patrimonio antico, questa caratteristica fondamentale della società preistorica picena, perché è stato il sostanziale bagaglio di conoscenze tecniche necessarie per poter lavorare le leghe ferrose anziché quelle rameose, possedute dagli antichi Piceni, a dare loro le ricchezze che i corredi delle inumazioni delle età protostoriche ci raccontano.
A proposito dell’acciaio potreste obiettare che “ferro” è solo un’etichetta per indicare il materiale base e la sua epoca e non tocca la questione delle leghe ma allora rivediamo in questa direzione tutte le classificazioni dell’Età dei metalli. Definiamo cioè tre grandi età: l’Età della Pietra, l’Età del Rame e l’Età del Ferro, ma gli archeostorici non hanno deciso così, infatti abbiamo il Paleolitico, il Mesolitico e il Neolitico, poi l’Età del Rame , quella del Bronzo e poi quella del Ferro. Le tre Età della Pietra indicano tre macro miglioramenti tecnici nell’utilizzo della pietra stessa, mentre per i metalli, il bronzo è chiaramente una lega rame-stagno, e sono differenziate le età del Rame e del Bronzo proprio a sottolineare un salto in avanti della tecnologia. Se scoprire le migliori caratteristiche delle leghe rame-stagno indica un progresso, è proprio il saper ottenere la lega a basso tenore di carbonio ovvero l’acciaio, anziché le ghise, che ci parla dell’alto livello tecnico di quelle poche genti che lo sapevano ottenere nella preistoria, ed è proprio questa conoscenza e i vantaggi che ne ha procurato che qualifica la civiltà Picena e non dovrebbe essere ignorata per far posto, nei musei e nell’insegnamento classico, agli ordinari prodotti in terra cotta della Grecia e ai loro nomi esotici.
Torniamo a casa nostra dove è da questa tecnologia che gli antichi abitatori della nostra regione hanno tratto le risorse per crescere, svilupparsi e dotarsi di tutti quei beni voluttuari che rendono piacevole l’esistenza e che ritroviamo nei cimiteri di Belmonte, di Sirolo, di Montedinove, di Matelica, di Ascoli, tanto per citarne una minima parte alla rinfusa. Questo lo scrissi già una decina d’anni fa e ora forse si sono allineati anche quegli archeologi e docenti di archeologia che scavano in Regione, gli stessi che, pochi anni fa, definirono i Piceni un branco di genti “che vivevano in condizioni di arretratezza” rispetto agli Etruschi. Ho già scritto che le ricchezze della civiltà picena che da qualche tempo è finalmente venuta alla ribalta anche nei “social”, sono massimamente da attribuire alle manifatture di metallotecnica delle cinque città altopicene (quelle con le mura megalitiche) di Ascoli, Fermo, Septempeda, Osimo e Ancona, città della prima Età del Ferro (secondo definizione degli archeostorici) collegate fra loro da una rete viaria (quella ufficialmente attribuita ai romani) da cui partivano le carovane di mercanti che diffusero queste produzioni oltralpe, generando la cosiddetta “Cultura Celtica”, come spiego in dettaglio ne “Il Piceno, storia e cultura” © 2024.
Perché io abbia scritto questa, forse noiosa, introduzione è dovuto al fatto che uno dei miei amici lettori mi ha segnalato un link di FB “uplodato” da Thomas Chen Amministratore di “Chinese Military History Group” che recita: In un articolo del 2005 “Indagini metallurgiche su due lame di spade del VII e III secolo a.C. trovate in Italia centrale”, c’era questa lama etrusca italiana Kopis (non Falcata) con 5 strati laminata in acciaio duro e morbido. La foto in alto mostra i resti sopravvissuti della lama. Il pix centrale mostra la sezione trasversale valutata e il pix inferiore mostra una falcata simile datata V al I secolo a.C. proveniente dalla penisola iberica (Spagna e Portogallo) nel Metropolitan Museum of Art. Report file PDF https://www.jstage.jst.go.jp/…/9/45_9_1358/_pdf/-char/en.
Il saggio a cui fa riferimento l’oplologo Cinese è titolato: “Metallurgical Investigations on Two Sword Blades of 7th and 3rd Century B. C. Found in Central Italy” degli autori Walter NICODEMI, Carlo MAPELLI, Roberto VENTURINI and Riccardo RIVA- Politecnico di Milano-Dipartimento di Meccanica-Sezione Materiali per Applicazioni Meccaniche, Via La Masa 34, 20156 Milano, Italy. E-mail: walter.nicodemi@polimi.it, carlo.mapelli@polimi.it (Received on May 26, 2005; accepted on June 24, 2005).
Questo post mi ha lasciato decisamente sconcertato perché una notizia largamente disponibile negli ambienti accademici e archeologici italiani da almeno un ventennio, apparentemente ignorata dai responsabili dei nostri musei archeologici, illustra gli esami condotti su una spada falcata e ne spiega il processo di fucinatura col quale i nostri progenitori ottenevano le caratteristiche tensili dell’acciaio usato per fabbricare armi bianche, con un procedimento concettualmente semplice, ma dannatamente difficile da eseguire. L’aspetto perlomeno grottesco della questione è che a diffondere la notizia sia stato un post di un’associazione culturale cinese e non un funzionario archeologo del Ministero della Cultura o un cattedratico di una Università di studi classici, nonostante si tratti di un saggio italiano su un manufatto preistorico italiano della cui tipologia sono pieni zeppi i musei marchigiani, e guarda caso è stato il prodotto di punta della metallurgia picena preistorica. L’oggetto di cui tratta il saggio, come già detto, è diffusissimo nei nostri musei e si tratta dell’arma di cui riporto uno schizzo perché da qualche tempo la Soprintendenza mi vieta di pubblicare foto degli oggetti dei musei in quanto le mie tesi non concordano sempre con quelle “ufficiali”.
Se le vedete nei nostri musei, il cartellino relativo, almeno fino alla mia ultima visita ad Ancona qualche tempo fa, indica, come ho già accennato, “spada a scimitarra di ferro” e anche “iron scimitar” per gli anglofoni, nonostante la scimitarra sia tutt’altra cosa. Qualche raffinato archeologo che ne scrive la indica come Machaira o Kopis perché il nome greco abbellisce e fa “scientifico”, mentre sul saggio del Politecnico milanese è indicata con chiarezza come “spada falcata”, per la sua forma particolare ben differente da quella della scimitarra. Trattare le tecniche di fucinatura di questi manufatti, fornendo descrizioni sufficienti a capirne il processo sarebbe troppo lungo in questo stesso articolo e forse stancante. Mi riprometto di riprendere in dettaglio l’argomento nel prossimo futuro, accontentandomi per il momento di sottolineare il fatto che siano addirittura i Cinesi a interessarsi di una eccellenza nostrana letta su un articolo nostrano, la cui importanza i nostri archeologi mai hanno evidenziato nei musei.
Medardo Arduino
27 gennaio 2025