Sulla fascia preappenninica marchigiana quello del carbonaio era un mestiere praticato nella prima metà del Novecento, tanto che, in quel periodo, sui monti di Pieve Torina e Montecavallo, operavano una cinquantina di carbonai. Il tumultuoso progresso negli ultimi settant’anni, l’arrivo dell’elettricità e del gas nelle case uniti ad altri fattori, hanno fatto scomparire questo e altri mestieri importanti per chi viveva nelle zone montuose, ma non solo.
Il cav. Fernando Mattioni di Pieve Torina (e forse qualcun altro) ricorda ancora quella figura di “uomo nero” con un berretto ben calzato in testa, robusti scarponi. Trascorreva gran parte dell’anno lavorando duramente nei boschi. Allestire una carbonaia non era uno scherzo. Bisognava tagliare la legna con l’accetta alla lunghezza di un metro, accatastarla a forma di cono e coprirla di terriccio. Senza terra il mucchio di legname sarebbe andato in cenere in breve tempo. Dall’apertura centrale superiore del cono si accendeva il fuoco; ai lati c’erano due/tre sfiatatoi per far uscire il fumo. In ultimo il carbonaio non si allontanava, ma restava lì vicino, anche di notte, per vigilare che il tumulo non si incendiasse velocemente.
Fernando, d’estate, si recava sui monti per compiere qualche escursione di una giornata con ragazzi di Casavecchia e qualche villeggiante romano. Una volta, mentre si erano fermati a bere alla sorgente Carafiume e poi attraversavano una macchia percorrendo un sentiero, incontrarono i resti di una vecchia carbonaia abbandonata. Vi era cresciuta rigogliosa l’erba selvatica e le fragole di monte: ancora oggi ricorda che erano piccole ma molto gustose. Quando oggi Fernando vede il fumo levarsi da un incendio boschivo gli ritorna in mente il fumo delle carbonaie. Il progresso e il boom economico hanno messo in disarmo uno dei più antichi mestieri, l’intervistato dice: “È scomparso il sudore di uomini laboriosi”.
Paride Carducci, zio paterno di Fernando, carbonaio per mestiere, veniva aiutato dal figlio Amilcare; vivevano a Pantaneto di Montecavallo. Ogni volta i carbonai acquistavano un bosco e ci lavoravano dalla primavera all’autunno. Un anno ne presero uno sulla montagna di Pomarolo (sopra il mulino di Casavecchia) a circa mille metri di quota; mentre quel paesino (o meglio, il gruppetto di case) era a 635 metri. In quel “cantiere” furono aiutati da un certo Antonio Pennacchioli detto Antoniaccio. Per un breve periodo i tre alloggiarono nell’abitazione di Fernando, all’epoca dodicenne (siamo intorno al 1946). Nella casa posta sopra il mulino di Casavecchia non c’era posto sufficiente e i due parenti dormirono in una camera mentre l’aiutante in magazzino sulla paglia. All’epoca i materassi erano riempiti con le foglie delle pannocchie di granoturco.
Anche Renato, il padre di Fernando, mugnaio, era un carbonaio occasionale. Il territorio di Pieve Torina è compreso tra il fondovalle di 450 metri e il monte Cetrognola di 1.491 metri, il più alto del Comune. Un anno Renato fece una carbonaia sulle pendici del monte Cetrognola a circa 700/800 metri di quota. Sulla cima i faggi erano stati tagliati tantissimi anni prima per creare dei pascoli. In quella fascia montuosa intermedia Fernando ricorda che c’erano radi faggi di media grandezza. Quando lo andò a trovare la prima volta aveva già costruito un capanno con il tetto e le pareti di frasche e fogliame e un giaciglio di frasche e foglie di faggio per due persone. Il boscaiolo-carbonaio tagliava la legna con l’accetta (la motosega non era ancora arrivata), alla cintola teneva appeso un falcione, calzava scarponi con i chiodi.
Un giorno lo zio Giovanni, mugnaio a Capodacqua, lo chiamò e gli disse di passare da lui che voleva mandare dei viveri a Renato. Il nostro ragazzetto si recò dallo zio, che gli affidò un buon asino. Era munito di un piccolo basto: da una parte pendeva una botticella di vino, dall’altra una di acqua potabile, al centro un involucro con pane e companatico (formaggio, salame). Partì da Capodacqua a 620 metri di quota, dopo mezz’ora di cammino incontrò le “Porte”, due alti scogli con al centro la stradella e poi, da lì la salita vera e, dopo oltre una ora e mezza, arrivò, sempre con l’asino a cavezza (tenendo la corda per mano). Il padre fu contento di rivederlo e dell’arrivo dei viveri; dopo averlo scaricato, il tranquillo quadrupede fu lasciato al pascolo nel vicino campo.
Renato restò in quella carbonaia circa un mese, dormendo nel capanno su quel giaciglio. Aveva deciso di fare il carbone nel mese di agosto perché l’acqua del mulino di Casavecchia in quel periodo scarseggiava: per riempire il grosso laghetto ci volevano quattr’ore. Il denaro ricavato da quella carbonaia sarebbe servito per mantenere Fernando agli studi a Camerino. Una volta terminata la “cottura”, il carbone veniva portato a valle dai mulari a dorso dei loro animali da soma, dentro grossi sacchi neri, di iuta. Suo padre aveva promesso di vendere il carbone alla ditta “Fratelli Bruto e Romeo Carioli” di Pieve Torina. Essi disponevano di un grosso autocarro e dopo aver ritirato il prodotto dai vari carbonai lo distribuivano anche lungo la costa. Dalla vendita del carbone Renato incassò ben 120.000 lire, una cifra che sarebbe stata sufficiente per mantenere suo figlio a studiare per due anni all’Istituto Magistrale di Camerino.
Il temporale – Come abbiamo visto, ogni tanto Fernando faceva visita al genitore sul monte e si fermava con lui due-tre giorni pernottando nel capanno; riposavano vestiti. Durante una di quelle visite arrivò un mularo a caricare il carbone, ma quasi subito scoppiò un pauroso temporale. I tre si rifugiarono in fretta nel piccolo capanno; i quadrupedi non c’entravano e restarono alle intemperie. Mentre i fulmini cadevano fitti come fuochi d’artificio e il rombo dei tuoni era quasi continuo, il conduttore di muli urlò: “Fuori i ferri” e gettò lontano accette, falcioni, zapponi e altro, tutti oggetti ferrosi che avrebbero potuto attirare le saette su quel rifugio di fortuna, riducendoli in cenere! Per restare in ambito carbone, con un po’ di ironia andiamo a vedere un altro simpatico aneddoto.
La gita – Un giorno d’estate, la ditta Carioli organizzò una gita al santuario di Loreto. Il camion era stato ben ripulito, ai lati del cassone erano state messe due tavole poggiate su supporti di legno a mo’ di panche. Un grosso telone di colore nero era arrotolato tra il cassone e la cabina. I partecipanti erano circa una cinquantina, tra i quali un gruppetto di Casavecchia: c’erano Fernando e il suo amico Nunzio Piergiacomi, all’epoca avevano intorno ai quattordici anni. Alla partenza Alcide Carioli avvertì a voce alta i figli in cabina dicendo “Portate delle persone, giudizio!”. Fernando non rammenta la quota di partecipazione e nulla di Loreto. A Porto Recanati rimase meravigliato alla vista del mare Adriatico: per lui era la prima volta. Fu organizzata una escursione in barca a vela e navigarono a circa 200/300 metri dalla riva. Quando il barcaiolo girò per tornare al porticciolo i partecipanti (una decina) si impaurirono per la naturale inclinazione derivata dalla virata della barca: due donne sul lato basso urlarono: “Affoghiamo!”, anche lui si preoccupò. Ma tutto si risolse bene. Fino a quel momento la gita fu piacevole! Quando l’autocarro arrivò a una quindicina di chilometri da Pieve Torina iniziò a piovere e sul camion con il cassone scoperto, tutti cercarono di ripararsi alla meglio. Alcuni si coprirono il capo con fazzoletti e golfetti. Fernando e Nunzio si infilarono sotto il tendone: mai l’avessero fatto! L’acqua sciolse la polvere nera del telone che era usato per coprire il carico di carbone. Al momento dell’arrivo e della discesa dal cassone gli altri “passeggeri”, osservando Fernando e Nunzio, cominciarono a ridere fragorosamente. Cosa era successo? I due erano diventati tutti neri, come carbonai, dalla testa ai piedi. Aggiunge l’intervistato con ironia: “Soffrì molto quel modesto vestitino da festa!” Sembrerà incredibile ai giovani, ma in quel periodo, che va dalla fine della guerra al benessere, i pullman erano pochi (alcuni a gasogeno) e qualche gita si faceva a bordo del cassone di autocarri di solito usati per il trasporto di merce sfusa di vario genere: ghiaia, laterizi, cereali e carbone.
Eno Santecchia
21 febbraio 2025