È un pezzo di pane oppure è buono come il pane si dice ancora di una persona di cui ci si può fidare a occhi chiusi. Il pane come metafora e archetipo di bontà.
Mia nonna Maria ci ripeteva che il pane è grazia di Dio, per cui andava anzitutto rispettato: le pagnotte non dovevano mai esser tenute capovolte (era maleducazione e portava male) e se un pezzetto ci cadeva per terra dovevamo subito raccoglierlo, soffiarci sopra per ripulirlo, dargli un bacio e rimetterlo in tavola; inoltre non andava assolutamente sprecato, buttarlo era considerato un peccato mortale e per convincerci a raccogliere anche le molliche la nonna ci diceva che saremmo stati in Purgatorio tanti anni per quante briciole gettate e nell’aldilà avremmo dovuto raccogliere con un cesto di ferro (o senza fondo) tutte le briciole disperse a terra; per altri bambini il contrappasso nell’aldilà prevedeva di dover raccogliere da terra le molliche con la lingua.
Perché questa accentuazione religiosa per indurci a non sprecare il pane? Certamente c’entrava il bisogno di risparmiare il cibo, l’insufficienza dei beni alimentari e la centralità del pane nell’alimentazione dei contadini. Ma c’entrava anche la valenza religiosa del pane in sé: Gesù nell’ultima Cena aveva scelto il pane come memoriale del suo corpo e della sua persona in croce per la salvezza di tutti.
Una tradizione devozionale marchigiana ricorda che la Madonna durante la fuga in Egitto arrestò il somarello per raccogliere col Bambino in braccio un pezzo di pane visto sulla strada. E una Madonna del pane si venera in Francia. Un’altra tradizione arrivata fino al giorno d’oggi vuole che sant’Antonio abate (ma anche san Nicola da Tolentino) sia celebrato con le panette, delle pagnottine con l’immagine del santo impressa sopra, benedette dal prete in chiesa e date da mangiare a tutti gli animali di casa per proteggerne la salute e in parte lasciate per quando i bambini e gli animali di casa avevano il mal di pancia, che le panette avevano il potere di far passare.
In verità tutta la storia del pane ha due costanti: si identifica con la storia delle classi sociali più povere (il pane ne è sempre stato l’alimento principe e la penuria di pane è stata all’origine di guerre e rivoluzioni: si pensi all’assalto al forno di manzoniana memoria) e il pane ha sempre avuto valore simbolico-religioso. Infatti l’arte del pane è risalente almeno al neolitico più antico: sono stati ritrovati di recente in Lituania resti di pani rituali, preparati nei templi per essere offerti a una dea della fecondità della terra; anche i forni neolitici ancora in corso di scavo a Portonovo di Ancona hanno forma di ventre gravido di un’ipotetica dea-Madre; focacce e chicchi di grano facevano parte del corredo funebre nelle sepolture egizie; i Greci facevano riti agrari nel santuario di Demetra, dea del pane e gli imperatori romani s’impegnavano a offrire negli anfiteatri a tutto il popolo pane e divertimento (panem et circenses).
Nei gesti delle nostre vergare che, ben oltre il dopoguerra, ripetevano nella conca (la madia) di casa i gesti tradizionali della panificazione casalinga si condensava questa sapienza antica, tecnica e simbolica. Un rito, quello del pane fatto in casa, che nelle case contadine si ripeteva ogni 15 giorni: soprattutto per noi bambini, era la festa del pane. Tutto cominciava il giorno prima, quando la vergara mescolava all’impasto di acqua e farina un pezzo di massa della panificazione precedente conservato appositamente a far da lievito: a questa massa lievitata era attribuito potere miracoloso, guariva chi soffriva d’intestino e per far crescere i neonati si metteva sul loro collo con tre grani di sale grosso. Mia nonna sull’impasto faceva il segno di croce, recitava un Pater noster e lo lasciava riposare la notte al caldo nella conca.
Anche il vergaro si attivava la sera prima a pulire il forno di casa. In ora antelucana si svegliavano entrambi: lui cominciava a scaldare il forno fino a portarlo alla temperatura di 300-350° (mio padre la testava mettendo sulla bocca del forno un foglio di carta, controllandone i tempi di bruciatura); lei lavorava la massa e faceva le pagnotte e sopra a ognuna ci faceva il segno di croce, le disponeva in fila su di una tavola tra due pieghe della tovaglia bianca. Infornato il pane, la bocca del forno veniva chiusa a stagno con la malta. Intanto, con la massa lasciata da parte, si preparava la crescia (condita con olio, sale e rosmarino e, a volte, pure cipolla, pomodoro e grasselli del maiale), veniva messa ne forno appena tolto il pane per non sprecare il calore residuo. Solo quando gli affari di famiglia andavano bene, mia nonna lasciava da parte un altro pezzo di massa, la stendeva col mattarello per farci le cresciole da friggere.
Allora era festa, come pure quando noi bimbi riuscivamo ad ottenere (o “rubare”) un pezzetto di massa da modellare in forme strane per cuocerle sotto la cenere. Resta da ripetere che non si doveva sprecare niente di tutto questo ben di Dio: il pane secco (dopo due settimane!) era ottimo per farci pancotto e panzanella (pane raffermo lessato nel brodo) per i vecchi senza denti oppure la bruschetta, fette abbrustolite sulla brace, strofinate sull’aglio e condite con un filo d’olio d’oliva. Il forno è ancora tiepido? Il caldo secco specie d’inverno non va sprecato, fa bene ai reumatismi e mio nonno sapeva come fare…
Enzo Monsù
17 aprile 2024