“Il professore dopo essersi seduto estrasse un frutto dalla borsa e posandolo sulla cattedra disse -questa è una mela e chi è di diverso avviso se ne può anche andare”. Mentre ascoltavo questa premessa all’ultima serata del “workshop formativo” nella Basilica di Santa Maria a piè di Chienti, la mia memoria è andata alle copertine dei libri stampati da queste parti prima della breccia di Porta Pia le quali recavano l’indicazione obbligatoria “stampato con l’approvazione de’ Superiori” a ricordare che esisteva, ma a quei tempi passati, la censura. Per contro oggi con l’art. 21 della Costituzione, è differente, ma è un elementare suggerimento delle norme del “bon ton” non interrompere un relatore e, solo se lo stesso lo chiede alla fine della relazione, porre delle domande che si giudicano di interesse per l’uditorio, così appresi quando mi insegnarono l’educazione. Siccome “verba volant” ma “scripta manent” mi corre l’obbligo di esporre le mie personalissime opinioni non sulle chiacchiere, ma su quanto si legge nella sezione titolata “affreschi” della pagina https://www.santamariapiedichienti.it finalmente comparsa qualche giorno fa dopo che per più volte scrissi su questo foglio che nel sito ufficiale non c’era alcun accenno agli importantissimi e bellissimi affreschi del catino absidale. Proprio perché scripta manent le spiegazioni si possono leggere accuratamente, farne uno screenshot per l’archivio e commentare.
Tralasciando tutte le implicazioni sulla storia della basilica e degli orientamenti religiosi dei monaci e dei fedeli che nascono per la presenza di un “Cristo pantocrator in mandorla” d’ispirazione basiliana, segnalo di questo affresco soltanto l’unicità (nel panorama europeo) del fatto che è rappresentato seduto su un sarcofago anziché su un trono, a simboleggiare che ha sconfitto la morte (“è risorto, non è qui” come scrisse il Manzoni) senza chiedermi quali le relazioni della sacra icona col culto cattolico dell’Abbazia di Farfa, perché tratto di storia e di arte e non di religione. Della pagina degli AFFRESCHI vorrei sottolineare invece la palesemente errata lettura delle caratteristiche del trittico trecentesco, che emergono dal testo anzidetto.

Innanzitutto ritengo opinabile l’interpretazione del significato dell’opera espressa nella frase “ Nella parte bassa del ciclo pittorico ci sono tre scene tratte dai Vangeli dell’infanzia con alcune interpolazioni provenienti dagli scritti apocrifi: la Natività, l’Adorazione dei Magi, la Presentazione al Tempio.” Non ritengo si possano definire “alcune interpolazioni” le tre raffigurazioni che tutte ribadiscono la regalità del Cristo pantocratore, che la Teccani così definisce “pantocràtore agg. e s. m. [..] 1. Che può tutto, onnipotente; l’appellativo, usato in età ellenistica come epiteto di varie divinità greche (Dioniso, Ermete, Ade), divenne, presso i cristiani orientali, attributo di Cristo quale signore del mondo. A riguardo non ho trovato alcuna informazione su un culto del pantocratore a Farfa.

Nella prima scena a sinistra, due ancelle lavano e profumano il Gesù neonato, trattamento riservato nell’alto Medioevo solo a re e grandi personaggi, mentre né Matteo né Luca scrivono questo. Nel quadro centrale dell’adorazione, uno dei Magi è in ginocchio (un re non si inginocchia mai di fronte ad alcuno se non più grande di lui ) mentre la Vergine Maria è assisa “in cathedra” a un livello più alto e tiene in grembo il Gesù che non è avvolto nei classici panni del neonato, ma indossa una veste tipicamente regale nel trecento italiano. Nell’affresco a destra, episodio della presentazione al tempio, il bambin Gesù e tenuto sollevato in alto da Maria in modo che il suo capo sia alla stessa altezza di quello del dottore della Chiesa, sempre a simboleggiare non solo la regalità, ma anche la parità del sapere e importanza del Cristo bambino. Questo non si legge nei Vangeli di Matteo e Luca.

Siccome tutte le scene del trittico sono improntate alla regalità ed onnipotenza del Cristo, e derivano e sono legate alla presenza del Pantocratore sopra di esse, ritengo decisamente riduttivo che queste scene siano definite “con alcune interpolazioni”. Esse invece sono pienamente coerenti con la teologia basiliana di quei “monaci d’oriente” che Camillo Lilii scrive giunsero verso la fine del quarto secolo nella valle del Chienti, anche se nessuno ne vuol parlare. A mio avviso la devozione verso l’iconografia orientale del Cristo re era e per lunghissimo tempo, decisamente popolare e, se oggi ancora esiste l’affresco, non fu mai contrastata dagli interessi fondiari dei Farfensi nei secoli dopo il Mille.

A parte le considerazioni sul significato didattico del trittico, a cui nessuno ha mai fatto cenno, al tempo in cui le immagini erano più eloquenti per la catechesi dei fedeli illetterati che non gli scritti (i cantastorie usavano esibire dei disegni quando recitavano la Chanson de Roland) mi corre l’obbligo, per l’evidenza degli affreschi, (anche se non mi considero esperto in materia e non ne ho mai scritto criticamente), di segnalare il grossolano errore di datazione espresso nella frase: L’opera, di autore ignoto, è da collocarsi a metà Quattrocento, in coerenza con le vicende costruttive dell’edificio e con la data 1447 graffita su fascia rossa nella scena dei Magi adoranti. Nel complesso si tratta di un’arte trecentesca, di cui vi sono tracce in altri luoghi della regione, esempio di arte gotica che nelle zone periferiche rispetto ai grandi movimenti artistici persiste fin nel secolo successivo, senza aprirsi ai modi rinascimentali.
Innanzitutto , a parte la cripticità di “zona periferica”, devo purtroppo smentire che il graffito alla base del quadro centrale, ammesso ma non concesso che possa leggersi come una data, possa mai indicare la data di esecuzione dei dipinti. La fisica più elementare dice che si può graffire, ovvero incidere, (nel caso nostro la superficie di un dipinto su intonaco) solamente dopo che questo sia stato eseguito. La presenza di una semplice data graffita non prova nient’altro che il fatto che a quella data esistevano la parete e ciò che si è fatto sopra di essa, che la profondità del graffito, se non è piena di pittura, ha asportato. L’esistenza del graffito non ha ed in se stesso non può avere nessuna relazione con quando la parete sia stata dipinta. Altrimenti il tempio di Ramses II ad Abu Simbel esisterebbe solo da quando il 4 agosto 1817 l’archeologo italiano Giovanni Battista Belzoni scolpì il suo nome e la data sulla gamba sinistra di una delle statue del faraone.
Chiarito che una data graffita non ha alcun legame con il dipinto, un minimo di confidenza con gli usi dei pittori del Rinascimento permette di dire che essi, quando siglavano e datavano i loro lavori, innanzitutto lo facevano col pennello e non con un punteruolo e lo facevano in modo criptico ponendo le lettere dei monogrammi (grandi poco più di un millimetro) in punti marginali o nascosti delle loro opere. Mi sembra banale scriverlo, ma né il committente né l’autore avrebbero gradito la deturpazione ignorante del graffiare con un punteruolo un’opera d’arte appena terminata.
Per quanto riguarda invece il graffito appunto che si vorrebbe fatto dall’autore dell’affresco o da un vandalo quando l’affresco era appena finito, pur non essendo particolarmente ferrato in paleografia, mi sento comunque in grado di non vedere una data nel graffito sulla fascia scura alla base dell’Adorazione. Per la particolarità del graffito, quando studiavo la Basilica, ne sottoposi una foto ai professori paleografisti coniugi Rocchi per i quali la scritta era invece un voluto rebus che ricordava, in parallelo con un’iscrizione a Sant’Elpidio a Mare, la caduta di un meteorite sulle colline dei dintorni. Ho più volte sollecitato le “Autorità competenti”, le sole, secondo il Centro Studi, in grado di pronunciarsi anche su aspetti strettamente culturali (cfr. “stampato Con l’Approvazione dé Superiori”), a far esaminare le caratteristiche dei bellissimi volti dei personaggi degli affreschi, semplicemente perché nella perfezione dei lineamenti e nella caratteristica vista “di tre quarti” denunciano una grande mano del nostro primo Rinascimento. Mi permetto di dissentire dal giudizio forzoso di “opera trecentesca” che “nelle zone periferiche rispetto ai grandi movimenti artistici persiste fin nel secolo successivo, senza aprirsi ai modi rinascimentali”. Considerando il popolamento trecentesco del territorio, ed il grande valore come centro di devozione che si attribuisce giustamente alla Basilica, tenendo in conto la presenza di dinastie come i duchi di Camerino e Spoleto, dei Brunforte, dei Da Mogliano, la presenza di padre Dante a Urbisaglia, quella della Scuola riminese di Giotto nel San Nicola di Tolentino perciò una società civile all’avanguardia (da cui proviene il committente dell’opera) questo committente sia andato irresponsabilmente a cercare un validissimo maestro del colore, inspiegabilmente fermo a un secolo e mezzo indietro (chissà da chi fu apprendista di bottega), che ha selezionato fra i suoi modelli proprio le caratteristiche della pittura di tal Giotto da Bondone (tirava a campare vendendo la sua maestria dappertutto solo a dei sottosviluppati retrogradi come lui o questa è un’opera unica?) No more comment.
Nel trattare gli affreschi non una parola, né scritta né udita, sulle evidenti obliterazioni a stucco di parte delle pitture, dove d’abitudine gli autori mettevano scritte esplicative, eppure sono molto evidenti anche se non hanno significati trascendentali e spirituali da commentare. Col pittore quattrocentesco mentalmente in ritardo di un secolo, torniamo alla società dei retrogradi che già venne ipotizzata dagli archeologi per il Piceno preromano recentemente clamorosamente smentita, perciò qui ci si compiace di riesumarla e farla continuare anche nel Quattrocento centroitaliano, pur di non voler ammettere che chi ha letto una data in un rebus graffito, può, come tutti noi possiamo, aver commesso un errore (principalmente di metodo). Non importa se questo sminuisce o cancella “ufficialmente” (per me superficialmente) l’importanza di un ciclo di affreschi trecenteschi di un artista da studiare con molta attenzione per i legami stilistici col grandissimo Maestro da Bondone.
Questo incomprensibile negativismo a tutti i costi, se accettato, cancellerebbe anche un secolo di progresso civile e sociale della società maceratese del Rinascimento, che fu committente dell’opera. Un bel risultato, tale da far pensare sul perché la parabola della mela sulla cattedra….e chi non è d’accordo, soprattutto se non è marchigiano di nascita, se ne può anche andare a quel paese. Prima di fare la valigia auguro a tutti i lettori serene e liete festività.

PostScriptum. Non posso tacere sul soggetto rappresentato sul lato sinistro a fianco del catino absidale che il conferenziere ha definito “Detto della Madonna del Cervo, simbolo della vittoria sul Maligno” Precisando egli che il Cristo era sovente raffigurato come un cervo che sconfigge il serpente ovvero “il maligno”. Scrissi (sono il solo) che questo dipinto potrebbe raffigurare Genoveffa ricordata perché simbolo della fedeltà coniugale. La moglie di un paladino di Carlomagno, legata alla leggenda della cerbiatta che ha in grembo. Non ho notizia di alcun dipinto rinascimentale della “Madonna del Cervo”, e mi chiedo perché il Cristo sotto forma di cervo, in questo affresco non abbia le corna, sia cioè femmina, ed abbia di fianco anche un bimbo con una lettera in mano. L’affresco è stato evidentemente restaurato da una mano poco felice che lo ha reso sgraziato e forse ci ha pure aggiunto un’aureola.
Medardo Arduino

Nota del Direttore – lanciamo un appello alla Soprintendenza: “Provvedete al restauro di questi affreschi affinché non vadano perduti, siamo prossimi al tempo massimo consentito e sarebbe veramente un gran danno per il mondo dell’arte, per la comunità e per il turismo, se non fossero più leggibili.
18 aprile 2025