Quando si nasceva in casa: fino a qualche anno fa in campagna una faccenda di donne 

Fino alla metà del secolo scorso la gravidanza è rimasta un evento fisiologico, al riparo dalla medicalizzazione, e il parto avveniva sempre in casa, sul letto matrimoniale, con le lenzuola rigorosamente fresche di bucato per evitare infezioni.

Ed era una faccenda di donne: quando il travaglio iniziava gli uomini e i bambini si allontanavano, spesso anche da casa. Il marito andava a chiamare la “levatrice”e poi, a parto avvenuto, festeggiava in cantina con gli amici; in seguito avrebbe piantato un albero per ogni figlio, intanto annunciava pubblicamente il sesso del neonato: nella campagna di Arcevia mi è capitato di vedere, ancora negli anni ‘70, sopra al palo del pagliaio più alto un fucile (per il figlio maschio) e, altra volta, la conocchia (per la figlia): è notorio che soprattutto in campagna la nascita dei maschi era salutata come una risorsa di braccia da lavoro, mentre si subiva l’arrivo della femmina come un tiro mancino della sorte.

In verità già la gestante era affidata alla cura delle donne di casa e in particolare della vergara che, per esperienza, sapeva consigliare la nuora e proteggerla (doveva vedere solo bimbi belli e sani!) Era lei a soddisfare le voglie alimentari della donna incinta, per evitare nel bambino malformazioni o le macchie di colore nella parte del corpo corrispondente a quella in cui la mamma s’era toccata durante la voglia insoddisfatta.

In famiglia e nel vicinato la curiosità prevalente riguardava il sesso del nascituro e gli indizi accendevano la fantasia: se la pancia della madre era a punta sarebbe nato un maschio, se era rotonda una femmina; se la mamma aveva bruciori di stomaco era a causa dei più folti capelli del feto maschio, oppure si faceva tira e molla con la “forcella” del pollo.

Dall’inizio del travaglio, mentre le donne preparavano pentole d’acqua calda e “pezzuole” necessarie per lavare bene mamma e neonato, a dirigere le operazioni c’era la levatrice, che teneva sempre pronta in casa la valigetta contenente cotone e siringa, forbici e disinfettante per l’eventualità di dover dare qualche punto. Solo in casi estremi chiamava il medico e, intanto, provvedeva lei a somministrare il battesimo al nascituro in pericolo (pratica d’emergenza prevista già dal Concilio di Trento, per evitare il Limbo in caso di morte senza sacramento: per questo stesso motivo tutti i battesimi si celebravano sempre entro la prima settimana di vita).

Le complicazioni erano in agguato: potevano venire dall’interno (posizione podalica, cordone intorno al collo…) o anche da condizioni ambientali esterne come le polmoniti per chi aveva la sventura di venire al mondo d’inverno. La levatrice sapeva sempre cosa fare; era lei a tagliare il cordone ombelicale con le forbici disinfettate in acqua bollente ed era lei a “raccogliere la vita”: prendeva il neonato per i piedi e lo teneva a testa in giù finché non lo sentiva piangere e respirare. Lavato bene, il bimbo veniva tutto fasciato dal collo ai piedi con una benda bianca, larga circa un palmo, che non consentiva nessun movimento (solo d’estate le braccia erano lasciate libere): questo per tenerlo caldo e con gambe e schiena sempre dritte. In testa veniva messa la cuffietta di cotone preparata dalla madre durante la gravidanza. Così sistemato, il neonato veniva adagiato nella culla, presa in prestito o fatta in casa e decorata a mano; se il numero dei figli in casa eccedeva quello delle culle disponibili, c’era come appoggio temporaneo l’ultimo cassetto del comò, quello più basso.

Le levatrici erano donne di carattere forte, ma sapevano anche essere dolci ed empatiche soprattutto verso le donne al primo parto. Venivano pagate in natura dalle famiglie contadine, ma – consapevoli di essere al servizio del bene primario della vita nascente – si davano da fare pure gratuitamente. Il mestiere è antico quanto l’uomo (anche la madre di Socrate era levatrice), ma le condotte ostetriche furono create solo a inizio ‘900 e da allora l’assistenza al parto fu garantita a tutte le donne, povere e ricche. Dal 1935 ebbero il titolo di ostetriche (dopo una formazione triennale) e un albo professionale. Spesso erano loro a fare anche le denunce di nascita in Comune; e comunque a loro si ricorreva (più che al medico) per i problemi di salute di puerpera e neonato, anche per consigli sull’allattamento, il bagnetto settimanale nella mastella nel calduccio (malsano) della stalla.

Alla puerpera spettava un periodo di 40 giorni in cui doveva “tenersi da conto”, evitare ogni fatica e seguire un’alimentazione che non “guastasse il latte”: brodo di gallina e pancotto erano i cibi di elezione, mentre tra quelli da evitare c’erano prezzemolo, aglio e cipolla. In vero la quarantena corrispondeva al periodo d’impurità (supposta) della puerpera per la (supposta) maledizione divina sulla donna dopo il peccato originale secondo Genesi, 3,16: “partorirai con dolore”. 

Enzo Monsù

29 maggio 2025

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