Parliamo di birocci, i tipici carri agricoli marchigiani a traino bovino, di struttura robusta e pratica, abbelliti da ornamenti e figure dipinte a colori vivaci con soggetti tradizionali. Dicevano i nostri vecchi proverbialmente:
Chj ci-ha verròcciu e vvò, li fa vè li fatti sò (Chi ha biroccio e buoi, / li fa bene i fatti suoi)
Inutile dire che i contadini erano molto gelosi del loro biroccio, che era considerato simbolo parlante della loro buona condizione economica e della più elevata condizione sociale rispetto a quegli altri lavoratori della terra che i buoi e il carro, a causa dell’esiguità o povertà dei loro poderi, non potevano permetterseli. Nelle formelle centrali delle sponde laterali del carro, se da un lato volevano che figurasse scritto il loro nome e casato, con l’anno di costruzione, dall’altro lato facevano magari scrivere espressioni che servivano a dissuadere chiunque del chiedere in prestito il carro stesso. La iscrizione più comune recitava:
Caro amico ti parlo sincero, / oggi non si presta, domani nemmeno.
Ma non erano pochi i contadini che, in qualche modo, dopo aver rinunciato alle frasi convenzionali di questo tipo, facevano apporre al carradore scritte più personalizzate e originali. Riferisco la scritta amena che si leggeva sul biroccio di un petriolese:
A Luchetti Mariano / glie sardarono li grilli porbiamente su la testa / questo carro non lo presta / non lo da manco a Tomasso / ci volesse annare a spasso / Mariano parla in faccia / chi vòle carro se lo faccia.
Come noto il biroccio serviva per i trasporti di ogni genere; ma allorché si trattava di consegnare l’uva della parte padronale, o di portare in chiesa le offerte devozionali dei raccolti, oppure di trasportare l’accùngiu (il corredo della sposa), il carro veniva tutto adornato mentre i buoi venivano parati e infiocchettati e muniti di moresche, le particolari campane. Durante i normali trasporti, il contadino seduto su una delle sponde o sopra il carico trasportato, per ingannare il tempo spesso cantava e questo suo particolare canto che si accordava col carriaggio, veniva detto a verroccià (a birrocciaio). Ecco un paio di tali canti:
E me ne vòjo jì londano tando / dónghe non pò ‘rrivà mango lo vèndo… / Aah! Va-là Fiurindì / Dónghe non pò ‘rrivà mango lo vendo, / mango lo sóle che ccamina tando. / E ppé le strade me s’è fatto notte / lu sòle m’è calatu tutte parte… / Va-là Garbatì! …Aah!… / Lu sòle m’è calatu tutte parte, / la casa del mi’ amó chjude le porte.
E Fiurindì (Fiorentina) e Garbatì (Garbatina), inclusi tra le usuali voci d’incitamento del birocciaio, sono chiaramente due dei nomi usuali che venivano dati ai bovini. Ma i canti qui richiamati, che sono di tono aulico e hanno persino una certa valenza letteraria, non devono far dimenticare che i canti a verroccià di solito se ne java in cojonerìe (se ne andavano in burla). Così come, a esempio, era birbaccione l’indovinello che chiamava in causa il carro e veniva serenamente proposto durante le veglie:
Pilusu de qua, / pilusu de là, / su lo ménzo ci sta tatà! (Peloso di qua, / peloso di là, in mezzo c’è il bambino)
il riferimento è al timone del biroccio che sta tra i due buoi. Sul biroccio molti marchigiani hanno già scritto ma, dopo le ricerche da me condotte, posso affermare che ci sarebbe molto da dire su di esso, e qui, tanto per dirne una, mi viene da far cenno alle ruote del carro che erano caratteristiche. Esse, infatti, secondo i nostri contadini dovevano avere dódece ragghj (dodici raggi), perché dodici sono i mesi dell’anno. E questo simbolismo trova curiosamente riscontro nientemeno che in quello indù che divide la tavola rotonda, o ruota, in dodici segmenti corrispondenti appunto ai dodici mesi dell’anno o “Aditya”.
Claudio Principi
6 giugno 2025