Una conferenza scritta lunga ma molto esaustiva sul vero significato di un documento medievale di Carlo Magno, il Capitulare de Villis e una domanda che pone l’architetto Medardo Arduino: “A chi era diretto il Capitulare de Villis?”
Il titolo della conferenza – Dissertazione fra amici su “Il Capitulare de Villis, legge che descrive le proprietà di Carlomagno e della sua famiglia”. È questo il titolo della conferenza tenuta dal professor Franco Cardini nel teatrino della parrocchia di San Claudio di Corridonia il 10 maggio scorso su cui mi sono già espresso, ora tratto dei contenuti di questo particolare documento sul quale ritengo di poter e dover dire la mia opinione.
Perché una lunga trattazione – Quando ho preso in considerazione questo atto particolare fatto redigere da Carlomagno, conoscevo la posizione a riguardo di don Giovanni Carnevale, interessante, ma a mio avviso un poco settoriale tanto quanto è invece partigiana ed errata l’interpretazione proposta dalla storiografia ufficiale. Mi scuso in anticipo se l’esposizione sarà lunga, ma una questione trattata sempre superficialmente per qualche secolo non può essere risolta in quattro e quattr’otto senza considerare tutte le implicazioni che un singolo tema si tira dietro quando è sempre solo una parte e non l’unico esito di un contesto sociale complesso.
Perché Aachen? – Gli autori dell’M.G.H. hanno inventato un mucchio di cose non scritte sul documento per estendere all’intero territorio dell’Impero Romano di Carlomagno gli aspetti specifici trattati nel documento e in particolare l’assurdo di situare le “ville” carolingie dappertutto nel vasto impero, in modo tale che non fossero in contrasto con l’aver posizionato Aquisgrana nella Renania Westfalia, facendola coincidere con quell’Aquis Villa, come i Romani battezzarono la cittadina termale germanica che nel corso dei secoli mutò il suo nome in Bad Aachen per meglio aderire alla fonetica teutonica e di recente solo Aachen per essere la prima nell’elenco delle città tedesche in modo che quel milione annuo di turisti che la pensano carolingia la trovino subito.

I notai non scrivono a caso – La mia posizione riguardo l’interpretazione dei significati storico e territoriale del documento è la seguente: innanzitutto, per non forzare attribuzioni opinabili e di comodo come è stato fatto, è necessaria l’analisi corretta e univoca del significato giuridico del titolo del documento, perché notai e funzionari carolingi non scrivevano a caso. Chiarito questo punto servirà poi capire a chi fosse diretto il documento e dove applicabile. L’esposizione potrà sembrare ridondante perciò noiosa, ma le “semplificazioni giornalistiche” che sono il modo di parlare di storia di un noto cattedratico che fa il “divulgatore” in tivvù (presupponendo che i poveri peones siano sempre disinformati e intellettualmente pigri) finiscono per essere scorciatoie che consentono di dire “ciò che gli pare”, anziché una meditata approssimazione alla realtà; quando a mio avviso è soprattutto il dettaglio analitico, talvolta annoiante per chi ha fretta, che consente al lettore di sapere su cosa poggi l’indagine.
La traduzione più corretta in Italiano attuale del titolo è: “Capitolato per la conduzione dei poderi agricoli”. In esso il primo lemma Capitulare, ovvero Capitolato, indica senza alcuna contraddizione che è un documento emesso da un potere pubblico (nel nostro caso l’imperatore Carlomagno) verso una categoria specifica e numericamente limitata di contraenti verso i quali sono emanate disposizioni attuative specifiche e circostanziate che i destinatari del contratto si impegnano ad osservare.
Capitolato e non Legge, la differenza sostanziale – È un errore di metodo e d’interpretazione confondere un Capitolato con una Legge, confusione che già si vede nel titolo della conferenza, ma che non è invenzione dei promotori perché è in voga già da due secoli (confusione nata in Germania nell’Ottocento per fini precisi e non per ignoranza giuridica). Ne consegue che un Capitolato essendo sostanzialmente un documento di diritto privato non può essere equiparato a una Legge, strumento giuridico di differente portata, generalmente rivolto a un’intera nazione come territorio, nel quale una legge è diretta a una o più categorie giuridiche di persone ed impersonalmente a chiunque in quella categoria. Un Capitolato tratta sempre aspetti e impegni concreti del do ut des, di romana memoria, con impegni reciproci fra l’estensore e il ricettore delle disposizioni contrattuali. Una Legge, al contrario, prevede e contempla il trattamento di quegli eventi definiti “astratti” dai giuristi, ovvero ben definiti in se stessi, ma non preesistenti la sua promulgazione (le leggi in linea di principio mai sono retroattive). La legge contempla perciò gli eventi o situazioni che possono potenzialmente verificarsi, ma la cui occorrenza non è predefinita o prevedibile in quanto tale (esempio immediato la normazione legislativa in caso di omicidio), oppure gli obblighi comportamentali o economici generalizzati. Ne consegue che un Capitolato non è Legge perciò siamo in presenza di due tipologie di atti decisamente differenti fra loro sia come attori richiamati sia come argomenti del contenuto. A tal riguardo è utile ricordare che dando al Capitulare l’equivalenza alla Lex, come fecero gli storiografi tedeschi dell’Ottocento col nostro documento, la sua applicazione anziché specifica e di diritto privato, diventa una norma pubblica “astratta” estensibile in tutto il territorio soggetto alle leggi (nel nostro caso a tutto l’impero romano carolingio).
La forzatura – Questa forzatura ha avuto come risultato che considerando il Capitulare come una legge il suo contenuto può riferirsi anche al territorio di Aquisgrana rilocalizzata in Germania come piace ai cattedratici e tutti sorridono soddisfatti. Ma se il documento carolingio già nel titolo è Capitolato non può essere così e si deve ricominciare dal via.
Ora analizziamo il “de Villis” – Il secondo sostantivo del titolo, che leggiamo declinato al dativo plurale “de villis” indica senz’ombra di dubbio a chi sia in effetti destinato il Capitolato. Il Dizionario latino Olivetti sul web per il vocabolo offre le seguenti traduzioni: villa, casa campestre, fattoria-villaggio, paese-podere, tenuta, possedimento. Qualunque di queste traduzioni si riferisce inequivocabilmente a siti agricoli di ampiezza limitata i cui nomi muovendo dal latino si sono differenziati nel tempo e nella geografia nostrana, ma non sono dilatabili a una nazione e neppure intendere che il documento possa riguardare tutte le “ville” del regno, perché in tal caso non sarebbe un Capitulare, ma una Lex. Dovendo effettuare una traduzione di “Villa” da un testo latino, il sostantivo italiano deve essere scelto fra le molte traduzioni rispettando le concordanze tipologiche del termine scelto con altri elementi fisico territoriali del testo: esemplificando in modo banale, se l’originale agglomerato di edifici rustici è accessorio a una grande dimora campestre di un latifondista, il termine Villa identifica l’elemento principale del complesso abitativo e produttivo di un fondo agricolo di grande estensione (tipicamente un latifondo) nel quale l’edificio padronale si differenzia dal resto dei fabbricati minori che sono le stalle, i depositi dei prodotti agricoli, il fienile, i pozzi, il forno e il mulino, ovvero tutti quegli edifici “tecnici” necessari al razionale sfruttamento del fondo agricolo, comprese le abitazioni soddisfacenti le minime esigenze esistenziali dei braccianti e degli altri addetti al lavoro dei campi. La pastorizia – Nell’Europa continentale, non deve essere dimenticato il fatto che al tempo dei carolingi la popolazione era in massima parte dedita alla pastorizia. Lo dimostra la storia dei Merovingi, re di una comunità di pastori e non di un regno territoriale: la storiografia dice che quando moriva il re il regno era diviso fra i figli, (talvolta anche in quattro parti) cosa praticamente impossibile se regno territoriale perché avrebbe imposto la moltiplicazione immediata degli apparati amministrativi ed esattivi, mentre un gregge si divide facilmente, anche se poi uno dei fratelli litiga con gli altri perché le sue pecore non sono belle come le altre (le storiche lotte per il potere fra gli eredi dei re Merovingi).
Il fattore – Tornando al nostro tema, nella romanità la Villa patrizia era l’abitazione temporanea del latifondista che la utilizzava in presenza sia nei momenti di raccolta dei prodotti dei campi sia nelle stagioni calde o per sfuggire alle epidemie endemiche nelle concentrazioni urbane. Quando il latifondo si fraziona, il centro agricolo non sempre incorpora l’abitazione del proprietario, al suo posto controlla la produzione un fiduciario della proprietà la cui abitazione non si chiamerà più Villa, ma principalmente Fattoria, oppure per le consuetudini delle varie regioni: Cascina o Podere o Casale o Masseria. Questo secondo caso è quello del nostro documento perché Carlomagno abita nel suo palazzo (palatium) di Aquisgrana (oggi San Claudio) e quando va in giro usa in genere la tenda a padiglione. Il conduttore del fondo sarà in genere detto il Fattore, personaggio che contrae nei confronti del proprietario gli oneri della conduzione contemplati in genere in una pattuizione scritta.
Pipino di Herstall – Il Capitulare de Villis è inequivocabilmente un documento di questa tipologia ed è perciò relativo alle proprietà fondiarie agricole dell’imperatore Carlo. Abbiamo notizia delle proprietà della dinastia fin dal bisnonno di Carlone detto Pipino di Herstall secondo i germanisti che lo piazzerebbero così in Belgio. Secondo me, partendo dal nome del luogo d’origine contratto in Harestallio nelle successive trascrizioni degli Annales Laurissenses, il nome completo era invece Pippinus de Airalis stabule ben traducibile con “Peppino degli Stallaggi”, essendo il nome proprio il diminutivo marchigiano del biblico Giuseppe e intendendo Airales il nome abbreviato come di consueto in Ares degli Airali (chi vuoi che si accorga di quel piccolo trattino sopra la ‘e’ di Ares che indica abbreviazione), ovvero i prati da pascolo dove ieri come oggi si allevavano e si allevano gli ungulati, in specie gli ovini, pascoli che ubico sulle pendici marchigiane del preappennino come ricordano i toponimi Muccia, Caprara, Cervara, Pieve Bovigliana, Pieve Torina ecc..
Maiordomus (maior dom in us) non è maggiordomo – Le proprietà di questo primo e quasi ignoto pipinide, sono diventate per successione ereditaria terre del nonno omonimo del Carlone, quello detto il Martello, che secondo Eginardo venne scelto come Maggior Signore dai suoi compagni d’armi perché “di nobili origini e di grandi sostanze” (titolo scritto abbreviato Maiordomus e tradotto perciò maggiordomo, quindi un servitore e non un capo, ad alimentare la storia farlocca). Tali proprietà passarono poi al figlio anche lui Giuseppe, detto il Piccolo, (Pepinus Nano secondo Goffredo da Viterbo) oggi noto come Pipino il Breve e da questo finalmente al nostro Carlo Magno.
I Comites Fideles, poi Conti – Accennare alle proprietà fondiarie allodiali (direttamente trasmissibili da padre in figlio) è stato necessario perché è da queste che i Maggiori Signori dei Franchi traevano gli alimenti freschi (in mancanza di supermercati e congelatori domestici) per sé e, per la parte a loro diretta dipendenza, degli armati del loro esercito. Tale compagine militare era usata come deterrente per andare a chiedere i tributi oltralpe, incrementata a chiamata anche da quegli alloderi incastellati sui “monti” che ancora oggi hanno il loro nome, ed erano Comites Fideles del loro Maggior Signore, quelli che la società feudale chiamerà poi Conti.
Entriamo nei contenuti del Capitolato – Avendo definito in modo inequivocabile che il documento è un capitolato per la conduzione di fondi agricoli di proprietà della corona e non una legge di applicazione generale perciò astratta e da osservare ovunque, entrando nei contenuti specifici del documento se ne può estrarre sia la regione geografica di localizzazione delle “ville” sia altre ineccepibili prove che l’Aquisgrana dei pipinidi e carolingi è in Val di Chienti e non in Renania. La prima e fondamentale considerazione da fare sul documento è la seguente: a chi era diretto il Capitulare de Villis? Ovvero chi e quanti erano i personaggi indicati come “ministro” (oggi diremmo il Fattore) cui competeva la gestione delle “Ville”, (oggi definibile Fattorie agricole) che nel caso delle proprietà del Carlone erano il centro per la coltivazione dei “Ministeria” (oggi definibili fondi o appezzamenti agricoli) tenendo inoltre presente, a conferma della regione in cui c’erano le fattorie carolingie che Ministru è il termine che ancora oggi è usato in dialetto maceratese per identificare il Fattore, qui e in messun’altra parte.

I Ministeria – Se diamo una scorsa veloce alla società del tempo, considerando che siamo nell’Alto Medioevo e non ai tempi nostri della scuola dell’obbligo, è noto che l’analfabetismo era imperante e saper leggere era già un livello notevole di istruzione. La figura del “ministro” ovvero del responsabile incaricato della conduzione del ministerium, (oggi definibile incarico di conduzione di fondo agricolo con fattoria) è perciò riferibile ai dieci Ministeria nei quali era suddivisa la proprietà allodiale marchigiana di Carlomagno, già identificata da don Carnevale. L’esistenza e la protrazione nel tempo di questi vocaboli, usati solo nella nostra regione, è molto ben documentata dal notevole lavoro di ricerca di Piero Giustozzi esposto in “Da Montolmo a San Claudio-Amici per il Fiume e altre storie” – Macerata 2023, pag 35 e segg.
Il Ministro carolingio – Definito il ruolo si deve tracciare il profilo del Ministro carolingio, figura immaginabile come una persona particolarmente esperta nella gestione del calendario e delle pratiche agricole, che in più ha imparato a leggere dai chierici di uno dei cento e passa monasteri marchigiani ed è la migliore interfaccia dei contadini con l’imperiale proprietario del fondo. Il Ministro/Fattore deve per forza essere un esperto agricoltore altrimenti non saprebbe gestire e valutare l’operato dei suoi homines, e queste cose, ben si sa, non s’imparano sui libri. Ho scritto “saper leggere” e non scrivere, perché le due capacità sono naturalmente collegate oggi, ma non lo erano nell’Alto Medioevo.
La facoltà di scrivere – Chi maneggiava la spada fin da piccolo, come il Carlone e gli altri Domini Loci, come chi maneggiava vanga e scure, da adulti avevano mani ipertrofiche che difficilmente potevano maneggiare una delicatissima penna d’oca, muovendola con la leggerezza e la precisione necessarie a scrivere in “carolina corsiva” su un foglio di pergamena di imperfetta planeità: un tocco men che leggero della punta della penna avrebbe fatto colare l’atramentum creando pasticci su un costosissimo foglio. Un simile esercizio richiedeva mani affusolate e lunghi anni di esperienza, quella propria dei chierici amanuensi che con quel sapere risolvevano il problema di mettere d’accordo il pranzo con la cena, e con quella attenta leggerezza ornavano anche di miniature i loro capolavori di pazienza.
Un ricordo che è un esempio – Questo aspetto dell’attitudine a maneggiare una penna d’oca non è mia pura immaginazione, nei miei ricordi di ragazzino c’è un episodio simile: mio nonno (classe 1875) apprezzato fabbro, costruiva balconate, ringhiere e cancelli in “ferro battuto” ornati di riccioli e volute, maneggiando per intere giornate martello e pinze. Dopo cena annotava i lavori su un quaderno usando una matita copiativa (il cui tratto diventa indelebile se leggermente inumidito). Usava quella “costosa” matita perché le sue mani muscolose e forti non riuscivano a controllare, con la dovuta leggerezza, il pennino metallico intinto nell’inchiostro che io invece usavo per scrivere i “pensierini” del compito.
Il latino parlato – È opportuno considerare che il Latino parlato era certamente conosciuto da quelle persone che oggi definiremmo “classe media” e che a quei tempi erano i militari di professione che possedevano un allodio e magari erano assegnatari del dominatus loci vitalizio su un più ampio territorio, che più tardi si chiamerà Feudo. Come i nostri Ministri delle Ville, i Domini Loci Franchi piceni di nomina regia conoscevano il Latino perché parlato da sempre in regione più che perché fosse la lingua ufficiale dell’impero, ma non erano in grado di scriverla come già detto. Lo dimostrano le centinaia di documenti con valore legale scritti in Latino che essi firmavano con la croce dopo che il notaio aveva dichiarato per iscritto che l’atto era “rogatus et vocatus” in presenza dei firmatari, che proprio perché l’avevano firmato, seppure con la croce, di certo l’avevano capito perfettamente e dovevano saper verificare il testo, anche se il notaio lo aveva letto come scritto, cioè in Latino, lingua che loro parlavano e leggevano ma non scrivevano. Non è pensabile che, trattando i diplomi di privilegi esattivi o imposizioni, in parole povere di soldi e di tanti soldi, li potessero accettare senza capirli. Non ha senso giuridico alcuna altra spiegazione sull’argomento.
Perché i Franchi parlavano latino – A questo riguardo entra in ballo la forzatura introdotta dagli storiografi tedeschi e accettata dai letterati nostrani che i Franchi germanici si siano messi a parlare latino per editto reale. Questa è una cosa senza senso e mai accaduta da che mondo è mondo. Un popolo o una nazione egemone impone agli altri la propria lingua, mai il contrario, anche quando domina un altro paese di grande cultura millenaria. Che i Franchi germanici scimmiottassero lingua e cultura degli antichi Romani e volessero identificarsi con loro è accettato anche dai nostri letterati seppure non abbia senso. I Franchi si esprimevano in Latino perché sono di origine picena, (cfr. Il Piceno, storia e cultura. Ed. Arduino 2023) e sono stati anche i fondatori della Roma Tiberina, perciò quali dominatori del ricostituito Impero Romano (etichettato dagli storici Sacro Romano Impero) usano tale loro lingua perché già diffusa con la romanità. Questa è una verità rispettata anche oggi: la Comunità Europea ha stabilito che è l’Inglese la lingua ufficiale della Comunità stessa non perché sia la colta lingua di tal William Crollalanza Sakespeare, ma semplicemente perché è la lingua ufficiale della maggior potenza economica e militare del nostro mondo occidentale.
Una puerile forzatura degli storici tedeschi – Tornado al Capitulare, essendo a diretto contatto con la casta egemone, sia i Ministri delle Fattorie sia i Domini Loci essendo Franchi marchigiani conoscevano naturalmente la lingua di Roma, l’unica lingua scritta dai Franchi fino al Giuramento di Strasburgo, e logicamente dovevano conoscerla fin da piccoli, in virtù della loro condizione sociale. Ritengo che accettare che i Franchi abbiano iniziato a usare il Latino perché disposizione di un editto di re Clodoveo cristianizzato, sia una delle maggiori e puerili forzature introdotte dagli storiografi transalpini per spiegare perché i Franchi, ovviamente per loro germanici, abbiano lasciato documenti di ogni tipo solo in Latino fino alla tripartizione dell’impero dopo Ludovico il Pio. Non è credibile alcuna altra congettura perché né in questo del capitolato né in alcun altro caso, è pensabile che un Dominus Loci o un Fattore del Carlone andasse a farsi tradurre il testo da un chierico, come gli storici sono stati abituati a pensare che facessero appunto i Franchi per ogni documento: non avrebbe avuto alcun senso perché quando gli esecutori erano responsabili, anche penalmente, degli esiti di disposizioni scritte, sarebbero sempre stati nel dubbio se il chierico avesse o meno ben capito e correttamente letto il documento.
La storia farloccata pro domo sua dai tedeschi di Bismarck è stata accettata per qualche secolo da quegli studenti che la dovevano leggere sui libri e ripetere al docente per avere un 18, troppo spesso l’unico fine del loro impegno. Questo del Latino acquisito per “osmosi” dai Franchi che bighellonavano ai margini del latifondo di Soissons, e imparato così bene da farne la loro lingua madre, aggiunto alle tradizioni e alla mitologia della loro origine troiana al pari dei Romani (cfr. Historiae Francorum seu Chronici Ademari Engolismensis.) renderebbe i Franchi l’unica” eccezionale eccezione” nella storia dello scibile umano, la cui embrionale cultura norrena si trasforma improvvisamente “per osmosi” in quella millenaria delle genti che ha vinto.
Geografia linguistica – A questo punto, pensando con una certa razionalità alla geografia linguistica dell’Europa altomedievale, mi sembra evidente che il Latino potesse essere ancora diffuso a livello popolare, sebbene in progressivo degrado (sao ko kelle terre per kelle fini), soltanto nell’areale Centroitaliano dove nacque; lingua imparata già in giovane età anche dagli esponenti del livello intermedio della società dei Franchi piceni, lingua usata nei rapporti extrafamiliari e in occasioni importanti. Lo stesso fenomeno c’è ancora oggi, o forse c’era ancora ante tivvù digitale, fino a qualche anno fa, quando si parlava in Italiano se si andava in città o si incontravano estranei, mentre a tavola in famiglia, o al bar con gli amici, si parlava in dialetto.
Siamo al dunque, finalmente – Dopo tutte queste premesse, che non toccano per nulla l’elenco dei vegetali da coltivare del nostro Capitolato, provate a pensare a un Carlomagno tedesco, e ai suoi Fattori sparsi dappertutto nell’impero, e immaginatevi quale poteva essere la lingua di questo Fattore se fosse stato germanico come l’imperatore e come i contadini-pecorai della sua fattoria. Immaginatevi cosa può sapere del Latino uno che non è mai stato dalle nostre parti, non è un giurista, ha passato la gioventù a imparare i lavori dei campi perché altrimenti non avrebbe potuto pretenderli dai suoi sottoposti e non sarebbe diventato un Fattore. Perciò, soprattutto in considerazione che si vorrebbero le “ville” carolingie dappertutto, una moltitudine di personaggi simili non avrebbero potuto frequentare dotti amanuensi o teologi che quindi non avrebbero potuto insegnare loro a leggere, soprattutto perché i dotti non erano abbastanza numerosi da quelle parti dove il Latino non lo capiva nessuno che non fosse un religioso.
La raccomandazione di Carlo Magno – Tant’è che nel concilio di Tours, l’anno prima di morire, Carlone raccomanda di non fare sermoni in Latino che nessuno capisce, ma di farli nella lingua Teutonica. Se, come hanno scritto gli storiografi Tedeschi, vive in campagna in Renania controllando i contadini, il nostro Ministro non può aver avuto né la necessità né il tempo di dedicarsi al Latino e non può conoscerlo se non grazie alla fantasia creativa per l’appunto degli storici dell’M.G.H. accettata anche dai nostri cattedratici. per non lasciare il lettore nell’incertezza su questo argomento aggiungo la nota di storia relativa alle conclusioni del concordato di Tours come si legge sul web “Il Concordato di Tours, o meglio il Concilio di Tours dell’813, è un evento storico importante perché è considerato l’atto ufficiale di nascita delle lingue romanze. In pratica, in questo concilio, convocato da Carlo Magno, si stabilì che le prediche e le omelie dovessero essere pronunciate in volgare, cioè nelle lingue parlate dal popolo, e non più in latino. Questo perché la Chiesa, inizialmente, utilizzava il latino, lingua del potere e della cultura, che non era compresa dalla maggioranza della popolazione.
Concludendo… – Torniamo al nostro Fattore e ai suoi nove colleghi, non credo si possano attribuire loro conoscenze impossibili e, se la mia verbosa e pignola trattazione del tema vi sembra più o meno accettabile, il Capitulare de Villis si può riferire senza forzare sulla consistenza culturale della società dell’Ottavo secolo, solo a quel territorio in cui si parla il Latino da sempre e che, da quando lo ha scoperto don Giovanni Carnevale, era in realtà la Francia picena, terra dei Salii da quando venne antropizzata e in cui i Ministri/Fattori carolingi compulsavano il Capitulare per essere certi di non trasgredire i desiderata del loro datore di lavoro e imperatore. Amen.
Medardo Arduino

18 agosto 2025


