Quando ci si curava a casa: medicina antica tra erbe, decotti, guaritori e superstizioni

Fino alla prima metà del Novecento, per curarsi raramente si ricorreva all’ospedale (inesistente in molti paesi) e si andava poco anche dal medico perché bisognava pagarlo. Molti rimedi naturali i contadini se li procuravano in casa o nell’orto, mentre i “guaritori” provenivano dalla solidarietà di vicinato. Vediamo una cosa per volta.

Sugli ematomi (le cosiddette “more”) applicavamo carta paglia o mollica di pane masticato, l’olio di oliva sugli orzaioli degli occhi, contro il mal di gola i gargarismi col succo di limone o con acqua e sale, per disinfettare una ferita un po’ di vino o urina calda, due gocce d’olio tiepido nell’orecchio in caso di otite, l’aglio per la cura dei vermi intestinali, il peperoncino rosso piccante emulsionato in un po’ d’olio per massaggi contro dolori reumatici e articolari; per curare la bronchite dei bambini ci appoggiavano sulla schiena e sul torace un mattone caldo o una pezza calda di lana, a volte imbevuta d’olio di pino mugo o panna di latte di pecora.

Per non dire degli impacchi e dei decotti di spezie varie contro la tosse, di papaveri calmanti, di malva (la regina della medicina popolare) come lenitivo del dolore ai denti e antinfiammatorio, fino ai decotti contro il mal di pancia fatti con le “erbe della Madonna” raccolte la mattina dell’Assunta (ferragosto) prima del sorgere del sole; quando avevamo mal di stomaco le nonne ci “tiravano su la forcella” con un cero acceso sotto a un bicchiere posato sulla bocca dello stomaco; per il mal di schiena insistente ci si sdraiava di fronte a una donna cui era morto il primo figlio maschio (chissà perché proprio lei e chissà perché si diceva che “tirava su i lumi”?): lei ti scavalcava tre volte appoggiandosi sulla tua schiena e sul mattarello di casa!

Se i rimedi naturali erano noti a tutti, bisognava ricorrere ai guaritori per pratiche specifiche (come l’ultima sopra accennata): spesso erano gli stessi che curavano i malanni delle bestie e più spesso erano donne che custodivano la memoria delle virtù terapeutiche di piante e unguenti e arricchivano l’efficacia intrinseca del rimedio con l’atteggiamento materno della cura e la sapienza relazionale femminile: la levatrice-mammana, il droghiere-speziale, il salassatore (applicava le sanguisughe per abbassare la pressione alta del sangue) e soprattutto il barbiere-cerusico che cavava anche i denti, ricomponeva le ossa fratturate, incideva gli ascessi.

Delle donne suturavano i lembi delle ferite con aghi ritorti (disinfettati sul fuoco) e filo di refe come imparato facendo i capponi! Per guarire si ricercava non solo la competenza tecnica ma anche il consiglio di chi aveva sofferto dello stesso male: era una medicina che appunto seguiva le tradizioni trasmesse più che il metodo scientifico; e quando ci si imbatteva con l’ignoto si ricorreva alle pratiche magico-religiose, come rivelato da una parte dall’esistenza di santi protettori della salute (e di singole parti del corpo: santa Lucia degli occhi, san Biagio della gola…) e dall’altra dal costume dell’immancabile segno di croce (spesso ripetuto tre volte) tanto nelle formule di scongiuro che nella cosiddetta “segnatura”.

C’erano donne per “segnare” di tutto: dalle verruche da rimuovere ai malati d’epilessia, sempre usando il presunto potere miracoloso del segno di croce di scacciare le malattie ritenute fin dal Medioevo opera del demonio. Tra superstizione e devozione si collocava anche l’abitudine di proteggere la salute col ferro di cavallo appeso dietro la porta di casa con un fiocco rosso o di tenere sotto ai vestiti i cosiddetti “brevi” contenenti supposte reliquie di santi, ma anche peli di tasso, cornetti o braccialetti di corallini rossi per i bimbi. Nel regime dei prodotti insufficienti la povertà, per la cultura popolare, non derivava dall’ingiusta distribuzione dei beni ma era considerata un fatto naturale, per cui chi emergeva per ricchezza (ma anche per bellezza o fortuna) non poteva che farlo a scapito degli altri: la invidia, che s’incaricava di ristabilire l’equilibrio, era veicolata sulle “vittime” dalla vista, dal guardare con occhio bieco e malvagio, dal “malocchio” e dalle “fatture” cause di malattie! Si ricorreva allora alla “stroliga” o “strolleca” (astrologa?!) che, con rituali vari, spostava il male su un’altra vittima, sulla strega che aveva fatto la fattura, o addirittura lo assumeva su se stessa.

Va chiarito infine che l’uso di erbe e di altri rimedi naturali è derivato empiricamente ai contadini dall’esperienza delle generazioni: numerose “virtù” terapeutiche di piante e cose sono state di recente riconosciute dalla scienza moderna, alcune spiegate nel funzionamento e altre ancora non spiegate ma ritenute efficaci (come l’agopuntura cinese). Invece molte pratiche dei guaritori hanno a che fare con le minacce irrazionali che contadini e classi subalterne in generale sentivano incombere sulla salute, senza poterle controllare se non ammettendo misteriose “potenze di fuori” e antidoti magico-devozionali pseudoreligiosi.

Molte tradizioni mediche familiari si sono perse durante il Novecento contemporaneamente al successo della medicina scientifica, collegata allo sviluppo delle grandi industrie farmaceutiche e all’affermazione dei servizi sanitari pubblici. L’insieme dei rimedi naturali e delle pratiche terapeutiche, con le loro interazioni, costituivano comunque un “sistema” sanitario tipico di ogni comunità e si basavano sulla interpretazione dei fenomeni biologici da parte delle classi subalterne: dunque la memoria della medicina tradizionale ha un valore storico e antropologico, ci racconta la visione del mondo delle rispettive comunità. È per ciò che anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità sta aprendo sempre di più all’integrazione della medicina occidentale con le tradizioni mediche popolari dell’Africa e dell’America Latina, anche perché le vecchie pratiche terapeutiche utilizzano sostanze naturali che sono facilmente reperibili e sono molto meno costose dei farmaci chimici.

Enzo Monsù

9 ottobre 2025

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