Riflessioni intorno alla poetica di un autodidatta

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Matteo RicucciLe illusioni, lungo il travagliato corso della vita, vengono lentamente fagocitate dall’ingorda “Ragione” che tutto divora e tutto dissacra, lasciandoci in balia di un nebuloso orizzonte che la coscienza ha paura di esplorare. Le sfide lanciate al futuro, durante gli anni  della  giovinezza, ci hanno incitato a spezzare le catene che ci legavano alla tradizione e all’inganno dell’ovvio. Fu vera gloria? Anche questo interrogativo genera il timore d’una verifica che inevitabilmente s’impone ora che s’avvicina l’ultimo guado. In questa faglia di tempo sospeso nasce prepotente il bisogno di un bilancio finale: una riflessione consuntiva da lasciar come testamento a figli e nipoti, ammesso poi che loro la vorranno mai leggere. Sin da ragazzo, con la mente e con il cuore già colmi di vivaci illusioni, ho nutrito il bisogno di parlare delle emozioni della mia anima alla visione d’un’alba radiosa o delle mie paure al calar della sera che di colpo inghiottiva desideri e speranze,  per aprire infine la cigolante porta dei sogni, i quali, per giunta, non erano quasi mai piacevoli. Da ragazzo vivevo in un mondo fatto di chimere, estraneo al mondo degli adulti tanto che le loro reazioni agli accidenti della vita mi lasciavano del tutto indifferente! Non piansi la prematura morte del più caro compagno di giochi, ucciso da un male che divorò ogni sua speranza, lasciandolo freddo e rigido sopra un letto sfatto. Nel corso di quella sua terribile sofferenza io non percepii affatto il suo tragico destino: speravo soltanto che cessasse, il più in fretta possibile, il cupo rimbombo del suo cuore impazzito ch’era già di per sé messaggero di morte! Ricordo ancora i suoi grandi occhi, colmi di meraviglia, durante la sua dolorosa agonia. Gli adulti decisero che io seguissi il feretro, reggendo sulle mie braccia un cuscino di velluto blu su cui poggiava un vermiglio cuore di cera. Durante la marcia funebre, che si snodava lungo strade sospese a picco sul placido Adriatico,  io ero  attratto dalla  scia d’un veliero che tracciava sulla piatta lavagna del mare la rotta dei suoi sogni e pensavo a quante volte, noi due, avevamo sognato di solcare gli oceani  a caccia di ricche navi da depredare. La banda musicale suonava marcette allegre a significare la gioia dei suoi genitori per quella morte precoce che avrebbe risparmiato al figlio le sofferenze d’una vita fatta di stenti e di rinunce e a loro il duro e, a volte, difficile compito di non fargli mai mancare un tozzo di pane. Di quella per me strana avventura ricordo l’astio che il mio ruolo mi procurò, impedendomi di correre dietro i radi confetti lanciati sopra la bianca bara. La mia gioiosa fanciullezza stemperava le nere tinte del presente infelice degli adulti e anche quelle rosee d’una fallace  speranza per un futuro carico di false promesse. Sentii parlare d’una guerra lontana che falcidiava le giovani vite di parenti e di amici e della quale, con fredda indifferenza, collezionavo le figurine che parlavano, invece, delle mirabolanti e non sempre vere, vittorie del nostro esercito. La morte e il nero del lutto erano l’argomento assiduo delle donne di casa: gli urli e le lacrime frantumavano in minute scaglie il silenzio delle vie e delle piazze, deserte di uomini. E intanto il tempo scorreva e le mie nude gambe, per la prima volta, furono fasciate da pantaloni lunghi che non giustificavano però una mia pretesa maturità di senno. Incontrai per caso il simulacro dell’Amore dagli occhi bendati e il mio cuore fu scosso da una nuova emozione: un’affascinante fanciulla dai capelli biondi e ricci. Conobbi la testardaggine d’un’insonnia che non mi concedeva requie. Sperimentai le prime atroci pene d’amore e i dolorosi morsi della gelosia, dea aliena e cattiva che popolava il mio mondo di insidiosi rivali, determinati a strapparmi dal cuore quell’unico bene. Impetrai l’aiuto del Signore con preghiere continue e fervide, ma un giorno scoprii che quella bionda sirena non era più mia. M’allontanai dall’orto del Signore che non aveva esaudito quelle mie invocazioni e poi dall’ipocrisia delle donne. Fu così che notai le prime crepe nel compatto muro delle mie illusioni. Lentamente un nero di seppia cominciò a tingere i miei pensieri. Con ingenua fiducia, confidai ad un amico le mie pene ed egli mi parlò del pessimismo, parola chenon conoscevo e che in futuro avrebbe lentamente accresciuto su di me la sua funesta influenza. Nella mia mente comparve anche il dubbio, demolitore d’ogni parvenza di certezza, che m’allontanò dal sacro recinto della fede, e dalla mia spontanea fiducia nel prossimo. Qualche raro ottimista saltellando sulla fragile corda d’una inesistente felicità, dissertava intorno alla  facile navigazione della vita verso un improbabile eden, ricco di doni e di premi. Cosa questa che mi ha insegnatoa navigare a vista con la speranza di aver bisogno, prima o poi, di un sicuro approdo. Mai ho frequentato alcuna scuola di apprendista scrittore, né mai imparato metrica e ritmo per cantare con versi sublimi il mondo ove vivo. Porgo solo l’orecchio alla voce dello spirito quando esso, farfalla inquieta, mi parla della nostra caduca vita! Quindi, non ho avuto forbiti maestri, né testi ricchi d’ardite poetiche che con autorità tracciano al resto del mondo il sentiero da percorrere, imponendo la loro legge a tutti indistintamente, pena la dura condanna dell’emarginazione. Lungo gli aspri percorsi della mia esistenza mi sono sempre fidato della mia sola coscienza. Ho affinato la mia percezione per comprendere il chiacchiericcio del mondo. Ho scritto molti libri, sempre da eterno libero scolaro della vita, mai perdendo di vista l’eleganza dello stile e l’arricchimento dell’anima. Nel corso dei secoli sono sempre esistiti ricercatori autodidatti che basano i propri studi su di una irresistibile curiosità, percorrendo sentieri tortuosi e senza una meta prefissata: costoro sono acuti indagatori, fruitori e porgitori di ispirazioni episodiche, lirici puri, lontani dal credo delle avanguardie, le quali basano, invece, il proprio apprendimento sui segreti di bottega, e che si autoproclamano i soli in diritto di scrivere versi perché sfoggiano la corona d’alloro e il manto splendente dei vati della patria, membri, a volte poco emeriti, di pubblici sodalizi, eredi di antiche accademie. Il discorso libero, e quasi naif, degli autodidatti mai produrrà opere di classica compostezza, ma loro navigheranno sempre sulle limpide acque del libero mare dello spirito, scopritori di percorsi nuovi, non segnalati dalle mappe del sapere universitario, imprevedibili quindi come un Diogene che cerca la verità con la propria lanterna accesa, anche quando il sole risplende alto nel cielo. Infatti “La Lanternadi Diogene” è il titolo della mia ultima raccolta di versi, e di proposito dico versi e non poesie e tantomeno liriche, perché ora, purtroppo, non è più tempo della poesia delle illusioni, unica dea della mitica Arcadia e della giovinezza di ogni poeta. Invecchiando, la ragione sempre più ci spinge innanzi alla ricerca dell’ultima meta, regno di un monarca assoluto qual’è il “Vero”, vittorioso su ogni illusione, su ogni pretesa di libertà e, soprattutto, su qualsiasi speranza di felicità.  Non c’è e non ci può essere alcuna attività di pensiero che debba necessariamente soggiacere alle regole restrittive della geometria del pensiero esatto! L’autodidatta dunque può anche affermare due verità contrapposte ed essere ugualmente credibile! Infatti mai ho percorso il cammino lungo una linea retta: alla resa dei conti a ciascuno il suo e a Dio l’ultima parola! L’uomo invecchia come specie, così come invecchia l’individuo: operaio o poeta, ricco o povero, santo o peccatore! Il Tempo ela Morte, briganti da strada, fanno il vuoto attorno agli sfortunati che sono condannati a vivere più a lungo di tanti altri. Essi, abbandonati su solitarie panchine, in deserti giardini, appoggiati a bastoni che a stento reggono stanche membra, non hanno nemmeno più la forza di porsi domande a cui non seguirebbe mai risposta alcuna. Costoro sperimentano i dolorosi morsi della solitudine e l’angosciosa attesa del gran trapasso. E’ un fatto che quando il gomitolo della vita è giunto al termine, altro non resta che mettersi nelle mani di Dio e presentargli il proprio curriculum vitae, proposito rinato all’ombra dell’evidente constatazione che l’ateismo integrale è un’aberrazione che scaturisce da una impossibile e improbabile pretesa: l’assenza d’un Principio Universale, creatore e regolatore, della meccanica celeste. Tutto ciò che ho detto è valido per il sapere in genere e perla Poesiain particolare perché essa, in quel mare d’inchiostro, consumato per lei, galleggia serena e spensierata, navicella ardita che sfida tutti i venti e mai approda a porto alcuno, perché lei rifiuta ormeggi servili e scali di comodo. Dalla notte dei tempi critici inquieti s’affannano a stilare regole e parametri per rinserrarla tra anguste vesti e lei, che è nata libera, insofferente, se le straccia di dosso per vagare nella sua sfolgorante nudità da un cuore all’altro di quei poeti che la cantano liberamente. Il mio ultimo lavoro poetico, infatti, naviga a vista nel mondo del possibile e in quello dell’impossibile, del vero e del falso, dei sogni del passato e delle paure del presente e, comunque, esso per me è sempre ugualmente degno di fiducia e di credibilità. 

Matteo Ricucci 

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