Lu somaru

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Antiche cortesie

 

asinoPuò sembrare strano, forse qualcuno ancora se lo ricorda, che in occasione delle feste più importanti c’era l’uso di fare “lu somaru”. Chi non lo rammenta o non l’ha vissuto perché giovane, domanderà: “Ma che adè ‘ssu cosu, lu somaru?” A quel tempo, in occasione delle feste recordate, alle persone a cui si voleva bene si faceva un regalo, un presente. I nostri vecchi non erano studiati e poco o niente conoscevano del galateo, però in determinate occasioni avevano dei modi comportamentali ritenuti giusti. Loro, dovendo fare un presente a qualcuno non lo portavano direttamente ma incaricavano una terza persona. Questo cristià’ che si prestava a fare questa ‘mmasciàta, era un ambasciatore detto lu somaru, in quanto era come quella pora vestìola che veniva usata come mezzo di trasporto, insomma era colui che caregghjava lu presente. In cosa consisteva il regalo? Il contenitore era immancabilmente lo stesso: ‘na sparetta, una mini tovaglia, generalmente a scacchettini bianchi e blu (anche rossi), di quelle usate dalle vergare in cucina, con i quattro spigoli incrociati e annodati fra loro. Il contenuto, sempre robba de casa da magnà’, variava a seconda del ricevente. Se il pensiero fosse stato destinato a qualcuno un po’ antipatico, ma non se ne poteva fare a meno, si prendeva una sparetta piccola e ci si metteva una forma di cacio piccola, una bottiglia di olio da tre quarti, qualche noce e un paio di portugalli (arance); se invece lu joenottellu de primu pilu (il ragazzo giovane), innamorato, preparava il dono alla sua ragazza per Natale, Pasqua, o per il compleanno, la spara era grossa e il contenuto tanto e di prima qualità: un muttijò (bottiglione da 2 litri) d’olio il migliore, un paio di ciabuscoli di quelli con l’impasto macinato due volte, con la pasta fina che, spalmata sul pane, rendeva di più (fruttava mejo), una forma di cacio delle più buone, genuina e squisita, di quelle lasciate dal pecoraio quando il contadino gli dava il permesso di pascolare le pecore sul proprio campo, qualche arancio, noci e un muttijò di vino quello de la chjaétta, il migliore della cantina. Qualche contadino sapeva fare anche il vino cotto, in questo caso si metteva nel “pacco” anche un fiaschjttu di questo nettare. Naturalmente il reciproco scambio di regali era un obbligo da rispettare e se qualcuno non avesse ricambiato, o non avesse inviato il presente nel momento in cui era giusto farlo, andava a finire sulla bocca di tutti e lu vicinatu spargeva la notizia come se fosse scoppiata una bomba, perché qualcuno aveva rotto una tradizione radicata e consolidata. Il “somaro” si prestava al gioco perché sapeva, con certezza, che quando la cortesia sarebbe servita a lui chi aveva avuto il servizio lo avrebbe ricambiato senza battere ciglio. Insomma anche questo era uno dei modi con i quali le famiglie si davano reciproco aiuto, si rinvigoriva la necessità di darsi una mano in modo che ognuno, in quella bella civiltà contadina, si sentisse solo o abbandonato.

Cesare Angeletti

 

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