La campagna Agip in Kazakhstan

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di Giuliano Pietroni

(settima puntata)

7-karachaganak

 

Tenacia e volontà

Racconta Pietroni: “In due mesi la struttura finanziaria era operativa ma Vanella dovette cercare subito degli interpreti, altrimenti non si sarebbe potuto svolgere alcun lavoro. Furono istituiti corsi di russo per noi e d’inglese per le interpreti e i futuri dipendenti kazaki. Le lezioni si svolgevano dopo l‘orario di lavoro, dal lunedì alla domenica mattina”. L’attività portata avanti per tutto il 1995 fu frustrante, ma la tenacia e la volontà degli uomini Agip e Bg portò ad avere in soli 5 mesi una struttura funzionante. Nonostante uffici provvisori e computer stand alone il personale fu in grado di far arrivare i contrattisti per i lavori sul pozzo in blow out e i tecnici per la ristrutturazione del Karachaganak. La forza lavoro aumentò a 90 dipendenti (“espatriati”) con l’inserimento di un dipartimento commerciale, legale e di un reparto d’informatica per collegare tutti i computer con un server centrale e per preparare un collegamento a internet, essendo le comunicazioni internazionali quasi inesistenti.

 

In ufficio con il parka canadese

Nell’ottobre del 1995 la società kazaka offrì alcuni uffici nella loro palazzina e la proposta venne accettata, per essere più vicini al loro management. L’area era in condizioni pietose, con uffici piccoli e scrivanie ridotte male, finestre che non chiudevano, servizi igienici posti fuori dall’edificio. Continua Giuliano Pietroni: “Non guardammo nulla, ci sistemammo portando avanti il lavoro pur di controllare il management kazako. L’inverno del 1995 l’ho trascorso lavorando nel mio ufficio con indosso il parka canadese e i guanti, la mia stanza era a 2 gradi sottozero, con la neve dentro e i vetri della finestra gelati. Chi entrava doveva vestirsi come me, perché in altre stanze stavano in camicia per il gran caldo”.

 

Vendite e incassi… in nero

Lavorare a fianco della società kazaka fece scoprire come la stessa gestiva con apatia il campo, pericoloso per la presenza di acido solfidrico (h2s), tanto che gli operatori dovevano lavorare muniti di maschere protettive e rilevatori di h2s. Si scoprì pure che la società kazaka vendeva il gas a società russe, e non, senza emettere regolari fatture e senza che vi fossero riscontri nella contabilità.

 

Gravi problemi fiscali

Il Dipartimento Finanziario del Governo kazako, scoperta la presenza del Kos sul territorio, cominciò a richiedergli le tasse inevase dalla società kazaka. Ci fu un laborioso lavoro di verifica per scoprire cosa fosse avvenuto durante il periodo di acquisizione del campo da parte del Governo kazako. Furono riscontrati buchi di fatturazioni, di pagamenti ed elusioni di Iva su fatture. “Non potemmo fare altro – commenta il nostro amico maceratese – che documentare il tutto all’Ufficio Tasse locale per scagionare il Kos da eventuali pagamenti di tasse”. Il Dipartimento Tasse di Uralsk non fece altro che sequestrare e sigillare gli uffici, i conti bancari e il parco macchine della società kazaka, nonché alcune attrezzature del campo. “L’attività fu bloccata anche per noi – commenta Pietroni – per cui fummo obbligati a intervenire operativamente sull’attività commerciale della società kazaka. Divenimmo, con un accordo, i venditori di gas ai russi e ai kazaki. I contratti con gli acquirenti venivano negoziati dal nostro reparto commerciale ma firmati dai kazaki perché la proprietà era la loro. Le fatture venivano stilate da noi su loro richiesta e firmate dai kazaki mentre le riscossioni passavano su conti da noi controllati, obbligando la società a gestire il movimento monetario presso la nostra banca”.

continua

 

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