Così vorrei la mia fabbrica

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di Forza Rata

  calzaturificio

Giorni fa sono stato a trovare un ex compagno di scuola nella sua fabbrichetta posta nell’hinterland maceratese. Era da molto tempo che non c’incontravamo ed è stato felice di vedermi, anche se l’ho trovato molto stressato. Pensate che aveva anche un tic nervoso: tirava su l’angolo destro della bocca muovendo la testa a sinistra, anche se non è che lo facesse con frequenza ma, così, ogni tanto. Parlando dei vecchi tempi abbiamo ricordato i nomi dei compagni di classe e, di alcuni, ci siamo reciprocamente informati su che fine avessero fatto. A un certo punto gli ho detto che lo trovavo un po’ stressato e, osservando che se la passava bene, ho chiesto il motivo del suo stress. “Come saprai in giro c’è crisi – ha cominciato a rispondermi – ma non qui da me, perché lavoro solo con l’estero e il nostro prodotto sia in Russia che negli States, ma anche in Cina, va molto bene… ciò che mi fa impazzire è la burocrazia italiana che mi mette in continuo i bastoni fra le ruote! Ma cerco di adattarmici perché non posso fare nulla per cambiarla”. Al che replico: “Allora, se ti ci adatti, non ti può stressare così tanto da farti venire i tic nervosi!” – “Giusto – mi risponde – infatti il mio stress deriva da una mia fissa particolare…”. Ormai sono incuriosito: “E sarebbe?” Si rilassa sulla poltrona Frau, poggia i gomiti sui braccioli, unisce le mani intrecciando le dita, socchiude gli occhi e… confessa il suo sogno… “Vorrei… che nella mia fabbrica si potesse osservare un regolamento diverso da quello che ci ha imposto la società, i sindacati e chi più ne ha più ne metta… vorrei poter rispondere a quell’operaio che si assenta per malattia una settimana sì e un’altra settimana pure che non accetto il suo certificato medico perché se ha la forza di andare dal dottore è evidente che può trovarla anche per venire a lavorare”. Provo a obiettare qualcosa ma lui mi ferma, occhi socchiusi, con un gesto della mano. Poi riunisce le dita e continua: “Lasciami sognare, per favore… vorrei poter dire ai dipendenti che mi chiedono un giorno di permesso che hanno 104 giorni liberi durante l’anno: i sabati e le domeniche!” Apre gli occhi… mi guarda fisso… ed esclama: “Zitto, non dire… considera che io lavoro 365 giorni l’anno!” Poi si rimette a sognare: “Vorrei che in fabbrica non ci fosse la fila al gabinetto… sarei disposto a dare solo 3 minuti dopo di che scatterà un allarme, la carta igienica rientrerà nel muro, si aprirà la porta e verrà scattata una foto. Al secondo ritardo in bagno la foto sarà affissa nella bacheca aziendale!” Qui scoppia in una sonora risata, mi guarda divertito e prosegue: “E la pausa pranzo? Non sai che stress mi provoca il tempo perso nella pausa pranzo!” Timidamente provo a inserirmi nelle sue esternazioni: “Non dirmi ora che vorresti far digiunare i tuoi dipendenti…” Mi guarda sottecchi, divertito: “Digiunare proprio no ma una regola calibrata su misura per ognuno sì!” – “E cioè che vorresti fare?” – “Vorrei che le persone più magre e deboluccie disponessero di 30 minuti perché hanno bisogno di mangiare di più, per poter essere più efficienti sul lavoro, più resistenti; a quelli normali basterà un quarto d’ora per fare un pasto equilibrato e mantenersi in forma perfetta; invece alle persone grassocce lascerei solo 5 minuti, più che bastanti per un fast food che non li appesantirebbe ulteriormente”. Non sapendo, a questo punto, come si dice dalle parti nostre, se ce fa o ci-adè, butto là, ironizzando: “Magari potresti interpellare un dietologo…”. Si fa serio, corruccia i sopraccigli: “E a quelli che mi vengono a chiedere aumenti? Questi dove li metti? Sai quanto mi stressano!? Io li andrei a osservare il sabato, o la domenica, quando non sono in fabbrica e a quelli che vestono firmato Armani, con le scarpettine Prada, la cintura di Gucci, il Rolex al polso direi: tu stai bene a soldi e non hai alcun bisogno di aumenti! Invece a quelli che indossano jeans e felpe e scarpe Made in China direi: per te un aumento è sprecato dato che non acquisti il Made in Italy e vesti da misero tapino senza pretese!” Lo interrompo, anche per far vedere che ci sono: “E quelli che vestono normalmente?” – “Ah! a quelli niente, stanno bene così come sono e non hanno bisogno di denaro in più!” Mi osserva tra il serio e il divertito, aspetta la mia reazione a tutti i suoi sproloqui e, vedendomi molto perplesso, si alza, mi tende la mano, mi sorride e dice: “Dai, non fare quella faccia, stavo solo scherzando… non penserai che vorrei fare davvero tutte quelle cose che ti ho detto, vanificando secoli di conquiste sociali, perdendo il rispetto dei miei collaboratori… dai, su, allegro, oggi sono pieno d’impegni, ma la prossima volta che mi verrai a trovare andremo a cena insieme giù a Porto Civitanova!” Così dicendo mi accomiata accompagnandomi alla porta del suo ufficio. Ancora una vigorosa stretta di mano, un abbraccio e, prima del distacco definitivo, guardandolo fisso nelle palle degli occhi, gli dico: “Tra le tue regole ne hai dimenticata una, hai dimenticato di rendere obbligatoria la riverenza al passaggio del capo!” Scoppiamo tutti e due in una sonora risata e, andandomene, penso: “Bene, così a prese per il culo siamo pari!”

 

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